giovedì 30 marzo 2017

Lettera d'amore alla ginnastica artistica

Mi hai regalato sorrisi e lacrime. 
Lacrime di gioia, di commozione, ma anche lacrime amare, piene di dolore.
Mi hai fatto soffrire, mi hai fatto aspettare, vivere di attese, mi hai fatto immaginare un domani pieno di felicità che, a volte, non è mai arrivato.
Mi hai fatto commuovere guardando vittorie di tanti, troppi anni fa.
Mi hai fatto stare ore e ore in piedi, a guardarti, ogni volta come se fosse la prima.
Mi hai fatto passare giornate intere a studiare un codice che sarebbe cambiato dopo meno di quattro anni, a guardare video per imparare a riconoscere gli elementi anche se non sempre ci sono riuscita.
Mi hai fatto litigare, prendere insulti, in alcuni casi mi hai fatto insultare a mia volta.
Mi hai fatto svegliare alle cinque di mattina per sapere dei risultati in diretta.
Mi hai fatto andare a dormire quando era già mattina.
Mi hai tenuta incollata davanti la televisione per ore, proprio a me che la televisione la odio.
Mi hai fatto urlare come una disperata.
Mi hai fatto arrabbiare come mai nella vita.
Hai tirato fuori il peggio di me, ma proprio il peggio.
Raramente, hai tirato fuori anche il meglio di me. Molto raramente.
Mi hai fatto organizzare trasferte con settimane di anticipo, prenotare hotel sei mesi prima di una gara.
A volte ti ho dovuta incastrare con lavoro, fidanzato e famiglia, ma hai sempre vinto tu.
Mi hai regalato amici con la A maiuscola, sparsi per l'Italia.
Grazie a te, quando il Leicester di Ranieri ha vinto la Premier League ho potuto raccontare di avere un'amica che vive proprio lì, in quella città che prima di allora nessuno aveva mai considerato.
Mi hai dato un gruppo di persone meraviglioso con cui condividerti.
Mi hai fatto elemosinare articoli di giornale che mi sono stati spediti da tutta Italia perché io non riuscivo a trovarli.
Mi hai fatto diventare una ladra di palette. O meglio quasi, visto che i furti non sono mai avvenuti.
Mi hai fatto riempire casa di cubetti di magnesia, così a caso.
Mi hai fatto passare ore e ore ad esaminare un body, a criticare una scelta tecnica non condivisa.
Ho convinto genitori e Fidanzato a guardarti, anche se loro non ti ameranno mai perché sei difficile da capire. 
Ho coinvolto amici e conoscenti, ci ho provato sempre e comunque, fino alla fine. Ho parlato di te a lungo, a tanti. Perché non riesco a farne a meno.
Mi hai regalato viaggi infiniti in macchina, con il freddo e con il caldo.
Sono passati tanti anni dalla nostra prima volta eppure ogni volta mi fai battere il cuore.


E quando mi chiedono: "Perché proprio la ginnastica artistica?" rispondo che non lo so, che è stato amore a prima vista e che spero di non smettere mai di amarti. Tutto qui.



La foto del post è di Marco Mastracco.

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mercoledì 29 marzo 2017

Mi hanno tolto il gesso e torno a saltare

Ieri mattina mi hanno tolto il gesso.
È stata un'esperienza traumatica, estremamente traumatica.
Siamo arrivati in ospedale alle 7.30 del mattino, consapevoli che avrebbero dovuto fare una lastra e procedere eventualmente con la rimozione, invece sono entrata, la sedicente dottoressa mi ha chiesto se fossi caduta e avessi picchiato con il ginocchio per terra e quando le ho spiegato che no, non è andata così ha detto di togliere il gesso senza se e senza ma.
"Se non hai sbattuto per terra vuol dire che non c'è nulla".
Io avevo portato le mie lastre, quelle in cui era evidenziata una rotula fuori asse di circa 40°, nonché la frattura -che è in più punti- ma lei non ha sentito la necessità di guardarla.
A dire il vero non ha sentito neppure la necessità di visitarmi, di farmi un'altra lastra, né tanto meno di leggere referti su referti che evidenziavano il problema.
"Alzati e cammina" mi ha detto poi. Peccato che dopo un mese di gesso, io non ero così agevole nel camminare, nè potevo farlo considerato che la gambina ingessata è magra magra e manca una cosa fondamentale: i muscoli.
"Tutte le donne hanno le ginocchia così". Peccato che io non ne conosco neppure una.
"Le stampelle sono una cosa mentale, non ti servono".
Mia madre a momenti se la mangia. Io piangevo per il nervoso, abbiamo deciso di andare via, con me che non riuscivo a muovere un passo.
La cosa positiva è che io ho il mio ortopedico, la mia fisioterapista e sono seguita in un centro validissimo. 
Ho chiamato piangendo e si sono subito adoperati per cercare di limitare i danni, visto che -per altro- avevano  riscontrato dei problemi anche all'altro ginocchio, quello non rotto.
Devo stare ancora a casa, gamba alzata, cercando di camminare -con le stampelle- un minimo per iniziare a riprendere un attimo il tono muscolare. 
Domani si deciderà se procedere con la fisioterapia o intervenire chirurgicamente per rimettere a nuovo questa rotula capricciosa. E insomma, poi la strada dovrebbe essere tutta in discesa.
Cosa ho scoperto subito dopo aver tolto il gesso? Che poi erano cose che sapevo già da prima, ma volete mettere provarle sulla propria pelle?
-che il ginocchio non si piega -praticamente non funziona da articolazione quale dovrebbe essere- e che prima di tornare a piegarsi passeranno mesi.
-che i dolori ci sono comunque e che resteranno con me praticamente tutta la vita, soprattutto quando cambia il tempo. A Roma il tempo, per ora, la temperatura va dai 7° ai 27° nell'arco di tre ore. Per dire, eh.
-che cammino più zoppa di prima e mia madre e Fidanzato, che dovrebbero amarmi in modo profondo, ridono di me.
-che sotto al gesso la pelle si è squamata ed è cresciuta una foresta di peli che manco una scimmia. I peli verranno rimossi nella giornata di oggi, per la pelle ci stiamo lavorando.
-che la gamba è la metà dell'altra ed effettivamente c'è stato un attimo in cui ho pensato di rompermi l'altro ginocchio a martellate, ma poi sono giunta alla conclusione che non è ciccia quella che mi ha salutato, ma muscolo. 
-che farsi la doccia è una sensazione stupenda, peccato solo che entrare nella vasca da bagno sia stata una fatica degna di Ercole e che la mia privacy più non esiste visto che necessita di essere guardata a vista, tenuta, aiutata, sorretta. Il bagno caldo con le paperelle resta un desiderio che dovrò reprimere ancora a lungo.


Quando una ginnasta si rompe, dopo un po' arriva la fatidica domanda: "Ma è tornata a saltare?" seguita a ruota da: "Ma salta sul duro?".
Io non saltavo prima, fatta eccezione per il mio amato trampolino in alcune occasioni suscitando l'ilarità di tutti, e non torno a saltare manco adesso, almeno per il momento, ma sopravviverò.
Intanto vediamo di ricominciare a camminare senza sembrare una papera.

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giovedì 23 marzo 2017

Storia di un amore ipocrita

Il mio poderoso lato B trascorre le sue giornate sul divano: da quando si alza la mattina a quando va a dormire la sera, lui sta lì, sul divano. Ringrazio l'arguta mossa di aver scelto un divano comodo e accogliente che potesse contenerlo in tutta la sua abbondanza.
Il lato B, quando non è sul divano, si riposa sul lettone, faticando non poco a spostarsi anche solo di un centimetro.
E se il lato B magari è anche contento di riposarsi, considerato che di solito le mie giornate sono pienissime di cose da fare, io mi annoio.
Fidanzato è tornato a lavoro dopo un periodo di ferie trascorso a farmi da badante, a volte ho la compagnia di amici, parenti, sconosciuti a cui probabilmente faccio pena con i miei leggins dai colori improponibili che fasciano il culone e con i quali io cerco di nascondere il gesso senza successo, altre volte sono sola. Col cane.
Il mio cane è un ipocrita.
La verità è che io l'ho voluto, io l'ho svezzato, io ho pulito la sua pipì quando era un cucciolo di mezzo kg, io gli compro pettorine e guinzagli fashion, io gli procuro palline e pupazzetti, io compro ossi da sgranocchiare e croccantini prelibati, io cucino per lui, io gli lucido il pelo e gli pulisco le zampe. Magari non sempre, ma comunque a volte lo faccio.
E lui invece di amarmi in modo incondizionato riconoscendo in me la sua mamma umana stupenda, ha sempre preferito Fidanzato. In modo quasi patetico aggiungerei, visto che lo segue ovunque, lo aspetta davanti la porta del bagno, lo abbraccia, lo cerca quando non c'è, disperandosi se non lo trova.
Io vengo quasi sempre ignorata, la mia funziona è praticamente quella di dispenser di cibo.
Tutto questo finché non mi sono rotta il ginocchio e ho depositato -non per scelta- il lato B sul divano. A quel punto, il cane ha deciso di amarmi follemente e di volersi non staccarsi più da me.
Il problema è che lui non ha mezze misure, anzi non sa neanche cosa siano le mezze misure.


Mi sveglia la mattina a zampate in faccia, come se già non facessi abbastanza fatica di mio a dormire la notte e mi fissa. No davvero, inizia a fissarmi finché non ci viene portata la colazione che certe volte ho paura che sia un modo per ipnotizzarmi e farmi sganciare soldi extra per i croccantini da consumare con gli amici cani alla faccia mia. 
Durante la lunghissima operazione di lavaggio -si, ci metto un sacco di tempo a lavarmi, proprio io che la mattina mi faccio la doccia, mi vesto e mi trucco in sette minuti d'orologio- lui mi aspetta davanti la porta del bagno pigolando manco fosse un passerotto.
Poi io mi trasferisco sul divano e lui mi si appiccica: normalmente si stende lungo la gamba ingessata, a volte poggia il muso sul ginocchio evitando la parte dolorante (ancora mi chiedo come diamine faccia a sapere in quale punto può appoggiarsi), altre volte si stende per tutta la mia lunghezza e dorme. Se io provo a spostarmi lui si sposta di conseguenza.
Se mi addormento mi lecca la faccia, se non mi addormento mi lecca il piede.


Oh lo so, a qualcuno farà schifo questa promiscuità con un quadrupede con la fiatella, ma io sono perdutamente innamorata di lui da quasi cinque anni e tutte queste attenzioni mi mandano in brodo di giuggiole. Nonostante la fiatella.
La sera, quando mi trasferisco dal divano al letto, lui mi segue, prendendo a codate le stampelle e quando io finalmente sono sotto le coperte, lui scava un po' e prende posizione sul mio piede, quello della gamba scema, come la chiama affettuosamente Fidanzato.
Il nano, lo stesso nano che ci ha messo tre mesi per imparare che "seduto!" significa che si deve sedere, ha imparato in una settimana a trasportare le stampelle, il telecomando della tv e il cellulare se sono troppo lontani da me. Che poi il fatto che fossero lontani era magari voluto non importa.
E quindi stiamo qui: appiccicati, senza mai staccarci, sul divano.
Chi glielo spiega che prima o poi tornerò a lavoro? Sarà lì che verrà fuori che il nostro era solo un amore ipocrita dettato dalla mia temporanea immobilità?


Nb. Per la prima volta su questo blog, un primo piano con cane del gesso quando ancora la fascia che lo racchiude era bianca. Adesso è diventata giallo.


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mercoledì 22 marzo 2017

Parole, sorrisi, pacche sulla spalla e abbracci

Qualche tempo fa mi è arrivato un messaggio di complimenti per il blog. Quattro righe che ho avuto bisogno di rileggere almeno dieci volte.
Quello che mi ha stupita non era tanto il messaggio in se, ma il mittente.
Una persona che non mi ha mai fatto particolare simpatia e alla quale credo di non averne mai fatta neppure io, non sapevo che leggesse il blog e -francamente- mi sono chiesta come lo abbia trovato.
E' una persona di cui non avevo notizie da almeno cinque anni, lavoravamo insieme anni fa e non ricordo di avere mai avuto un rapporto che andasse oltre il buongiorno collettivo detto la mattina a tutti e a nessuno quando si arrivava in quel posto di lavoro a cui, in realtà, devo molto a livello professionale, anche se mi costa fatica ammetterlo pubblicamente.
Ho fatto una cosa che non si fa: ero in Svezia, lontana da casa, ho fatto uno screen del messaggio e l'ho inviato a Fidanzato, senza dire una parola. Era stupito quanto me.
Mi sono chiesta se fosse un messaggio sincero o una presa in giro, ammetto anche questo, e sono giunta alla conclusione che si, era un messaggio sincero. E bellissimo, che mi ha fatto un piacere immenso, mi ha regalato un sorriso nella sua semplicità, forse anche più di uno.
Il messaggio -quattro righe in tutto- mi ha insegnato qualcosa.
La verità è che io non lo avrei mai mandato a parti invertite perché non avrei mai dato una soddisfazione ad una persona che non mi piaceva particolarmente.
Chiaramente, sbagliavo.
Tante, troppe volte non ho scritto qualcosa a qualcuno per non dare soddisfazione. E avrei dovuto farlo, ma non ci ho mai davvero pensato finché non ho ricevuto questo messaggio.
E' incredibile come quattro righe possano farti riflettere per giorni.
Quante volte non ho detto qualcosa a qualcuno?
Ti voglio bene.
Sei dimagrita.
Stai bene vestita così.
Stai facendo un buon lavoro.
Complimenti per questo o quell'altro.
Ho sbagliato.
Mi manchi.
Coraggio.
Sei stata bravissima.
Hai fatto bene a provarci.
Andrà meglio la prossima volta.
Qualsiasi cosa vi venga in mente da dire sia a persone che avete vicino ogni giorno, sia a persone con cui magari avete un rapporto molto meno stretto, ma che comunque sono passate -o sono ancora- dalla vostra vita.
O ancora un sorriso, una pacca sulla spalla, un abbraccio che a volte le parole sono di troppo. Dipende dai casi.


Ci ho provato a dire due parole che non avrei mai detto a qualcuno. E nessuno mi ha preso per pazza, credo abbiano apprezzato, così come ho apprezzato -e tanto anche- quelle quattro righe di messaggio.


La foto del post è di Samira El Bouchtaoui.

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martedì 21 marzo 2017

Fenomenologia della futura sposa

Confesso: mi sono iscritta ad un gruppo Facebook che si chiama "sopravvivere ad un matrimonio" o qualcosa del genere.

La verità è che mi serviva un'informazione su delle gioiellerie e mi sono affidata al mantra se non lo so io, lo saprà qualcun altro. E dove trovare questo qualcun altro se non su un gruppo Facebook da mezzo milione di persone? Ovviamente non ho trovato l'informazione che cercavo, ma non sono riuscita a smettere di leggere le cose che le sedicenti sposine scrivevano.

Ho fatto delle scoperte degne di nota sulle future spose e ogni giorno scopro cose nuove estremamente interessanti:
-la necessità del corredo di primo letto per le foto: praticamente bisogna acquistare -o farsi regalare che sarebbe meglio- una coperta da mettere sul letto per fare le foto belle. Ovviamente la coperta deve avere dei colori precisi, ma non ricordo quali sono.
Dopo averlo scoperto, sono andata dai miei copripiumini Ikea, li ho accarezzati e rassicurati del fatto che non li cambierò mai.
-i confetti da portare a tutti i vicini di casa: se non prepari bomboniere e confetti per tutti gli abitanti del palazzo, sei una persona arida.
Mi è tornata in mente quella volta in cui Fidanzato bussò alla porta della nostra vicina per chiederle una cosa e lei si rifiutò di aprirgli perché non apriva agli uomini sconosciuti. O di quella volta che è esplosa una tubatura e tanto educatamente ho pensato di avvisare i vicini che non mi hanno aperto.
Io l'ho detto che portare confetti a settanta appartamenti forse non era il caso, considerato che in sessantanove non so neppure chi ci abita, ma mi hanno dato dell'arida. Aridissima.
-se l'abito da sposa costa meno di 5000€ sei una poraccia: si commenta da sola questa, alla faccia della crisi. E comunque, mia suocera che è sarta fa dei vestiti da sposa che quelli degli atelier costosissimi possono solo andare a nascondersi, tzè.
-fotografi, animatori e via dicendo non devono assolutamente mangiare quello che mangiano gli invitati: sono lì per lavorare e dovrebbero provvedere da se al proprio pranzo/cena. Con la schiscetta immagino. Al massimo, un piatto di pasta al pomodoro, ma è proprio una grande concessione.
-suocere, madri e sorelle vogliono sempre rubare la scena alla sposa: è per questo che comprano abiti eleganti, si sistemano i capelli e si truccano, mica per altro, che vi pare?
-mai mandare lo sposo da solo a scegliere cosa mettersi: nessun uomo è in grado di scegliere cosa indossare, figuriamoci il giorno del proprio matrimonio.
-gli invitati devono ripagare le spese sostenute dagli sposi facendo un regalo adeguato: ogni invitato deve calcolare il costo del pranzo/cena, il costo del fotografo (giustamente vengono immortalati anche gli invitati), della musica, delle bomboniere e degli inviti e ripagare la spesa per intero. Sia mai fare un regalo di anche solo 10€ in meno. E per chi i regali non li vuole, come si fa?


Ma soprattutto, la cosa più importante e degna di nota: se non fate una grande festa, con minimo 400 invitati, l'abito da 5000€, il concerto dei Queen con Freddy Mercury riesumato per l'occasione, che vi sposate a fare?
Ho azzardato la prima risposta che mi è venuta in mente: "Perché ci amiamo" e mi hanno risposto che l'amore non esiste. C'est la vie.

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lunedì 20 marzo 2017

Barriere architettoniche e mentali

Oggi io e il gesso festeggiamo sedici giorni insieme. A me sembrano sedici anni a dire il vero.
Non posso uscire di casa, devo stare con la gamba alta, ho continuamente la febbre, ma pare sia normale. L'auto è vietata, così come il treno, salvo rarissimi casi, ovvero le visite mediche che comportano uno sforzo non indifferente da parte del Fidanzato che mi deve caricare in macchina -rigorosamente nel sedile posteriore- manco fossi un oggetto ingombrante.
Stamattina mi hanno controllato il gesso giusto per dirmi che ancora è presto per toglierlo. Vedremo se riusciremo a sbarazzarcene per la data prevista, per sostituirlo con un meraviglioso tutore e poi decidere come procedere. Non decido io, se no un paio di opzioni le avrei già eliminate dalla lista.
Oggi ho sentito la parola chirurgo e un brividino mi ha percorso la schiena.
Nel frattempo, si è rovinato anche l'altro ginocchio e speriamo di riuscire a salvarlo prima che si rompa anche lui, ma non è questo il punto.


Cammino con le stampelle, zompettando libera e felice come una farfalla come un elefante privo di ogni forma di grazia. Ho imparato a scendere le scale, ma non a salirle.
In realtà, gli unici gradini che non posso evitare lungo il mio cammino sono quelli del mio palazzo -ben due- visto che non posso utilizzare la rampa realizzata per le sedie a rotelle e i passeggini. Il genio che l'ha progettata ci ha messo un bel dissuasore in mezzo per evitare che venga usata a sproposito: peccato che il dissuasore non è mobile, ma in cemento, quindi non ci si passa neppure con la sedia a rotelle di Barbie. Buttare via i soldi dei condomini: lo stai facendo bene, mio caro costruttore di rampe per carrozzine. 
Appena davanti il cancello esterno del mio palazzo c'è una grata e le stampelle ci si incastrano dentro, visto che i buchi sono troppo larghi. 
I marciapiedi davanti casa mia -zona bene di Roma, ci tengo a precisarlo- sono dissestati: le radici degli alberi li hanno distrutti completamente, sono quasi tutti sollevati e pieni di crepe e io faccio una fatica incredibile per fare due metri e rischio comunque di rompermi l'osso del collo.
Lo stesso vale per tutti i marciapiedi che ho incontrato nel mio cammino di stampellante e, a dire il vero, lo sapevo già prima che erano ridotti così, ma non avevo le stampelle e non mi rendevo conto.
Adesso so perché quel simpatico signore che gira in sedie a rotelle qui intorno sta in mezzo la strada e non usufruisce del marciapiede. 
Le macchine sono accavallate l'una sull'altra e quindi fatico anche a trovare un posto per scendere dal marciapiede, visto che ho bisogno di spazio per zompettare allegra con le stampelle (che con mio sommo rammarico non sono rosa) e tenere contemporaneamente una gamba tesa senza poggiarla a terra che altrimenti mi casca. Effettivamente, proprio a cinque metri dal portone del mio palazzo ci sarebbe uno scivolo per disabili, in corrispondenza delle strisce pedonali, ma ci sono sempre le macchine parcheggiate davanti, quindi non posso usarlo.
Non sono neppure riuscita ad utilizzare un paio di bagni dei bar perché non riesco a salire e scendere le scale a chiocciola che già non mi piacciono normalmente, figuriamoci con le stampelle e il gesso.
Io prima o poi le stampelle non le avrò più, prima o poi tornerò a camminare sulle mie gambe, anche se mai come adesso la strada mi sembra tortuosa e in salita, ma c'è qualcuno che sulle proprie gambe non ci camminerà mai.

Le difficoltà a spostarmi posso sopportarle. Posso sopportare anche le impetuose scalinate che non riesco ad affrontare. Le difficoltà a capire invece le tollero meno. 
Io non chiedo nulla, esco pochissimo per i motivi di cui sopra, aspetto paziente che qualcuno mi dia una mano a lavarmi e profumarmi, maledico il gesso ogni dieci minuti per fargli capire che non è ben accetto e deve trovare un'altra sistemazione quanto prima, scrivo, leggo e cerco persino di guardare la tv.  Ho sempre qualcuno che viene a trovarmi e a tenermi compagnia, anche se immagino di essere più rompicoglioni del solito. E' che ho amici educati che non me lo fanno notare quanto sono fastidiosa e molesta, probabilmente prima o poi mi presenteranno il conto e farebbero anche bene.
Sanno tutti che non mi posso muovere, i primi giorni l'auto era vietata anche per andare dal medico, piuttosto l'elisoccorso, solo che pare brutto chiamarlo per un ginocchio rotto.
Poi eh, non so se avete presente Roma. Io la amo, è la città più bella del mondo, ma oggettivamente muoversi in auto è un incubo. A parte che ci sono le buche e i sanpietrini che fanno fare bum budum al ginocchietto -e anche alle sospensioni della macchina, a dire il vero- ma il problema grande è il traffico. Provate ad attraversare la città ad ora di punta. No davvero, provateci. Tanti auguri, eh. 
Dopo quattro giorni di gesso mi arriva la richiesta di portare una cosa, ad ora di punta, dall'altra parte di Roma, con il temibile scoglio da attraversare, altro che Colonne d'Ercole. Sto parlando di Caracalla: provate a passare da lì alle otto di sera, provateci se avete il coraggio.
Avevo un'amica dalla quale andavamo spesso a cena, ma per arrivarci dovevamo passare da lì: le mandavo un messaggio quando partivo da casa e poi uno quando attraversavo Caracalla, dopo sei ore abbondanti. L'unica volta che non ho trovato traffico, mi sono commossa e ho rischiato di fare un incidente perché le lacrime mi offuscavano la vista.
Quindi, ricapitoliamo: richiesta a un'ingessata con divieto di salire in auto per evitare una serie di rischi che non sto ad elencare di portare un oggetto non di vitale importanza, ad ora di punta, dall'altra parte di Roma. La destinazione era, per altro, in ztl, quindi era necessario parcheggiare l'auto e farsi non so quanti km a piedi. Col gesso e le stampelle.
Ah, io non posso guidare, lo sottolineo perchè per qualcuno non è così chiaro, quindi ho necessità di un autista. Si, sempre lui: il povero Fidanzato. O al massimo, posso prendere un taxi.
Che poi, avrei potuto trovare qualcuno disposto a fare la traversata al posto mio, ma ditemi: chi, a ora di punta si fa tre ore di macchina nel traffico? O meglio, chi ha cuore di chiedere a qualcuno di farsi tre ore di traffico per una cosa non di vitale importanza?
La cosa divertente è che, al di là della richiesta folle, la persona che doveva occuparsi del ritiro non si è fatta trovare, non ha lasciato detto nulla a nessuno e da una ricerca, non risultava neppure essere lì.
Quando si dice l'empatia, eh.
Che poi io capisco che il ginocchio è il mio, ma fossi stata dall'altra parte, prima di chiedere ad una persona di rischiare di compromettere in modo serio le proprie condizioni di salute ci avrei pensato due volte. Anche tre, anche quattro.
Se per questo, qualcuno si è anche domandato come mai io non sia rimasta a Milano, da sola, senza potermi muovere neppure per andare in bagno, senza poter uscire per comprare le medicine o del cibo e senza assistenza sanitaria, visto che il mio medico di base è a Roma e l'ospedale che mi ha ingessata mi ha detto chiaramente che lì non mi avrebbero seguita in quanto straniera residente in altra regione.
Si, straniera perché non residente in Lombardia, ma nel Lazio.
Credo sia stato lì che io abbia capito che le barriere architettoniche mi fanno paura, ma non quanto quelle mentali perché se le prime si possono aggirare ed eliminare, le prime resteranno sempre. E mi fa paura.


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domenica 19 marzo 2017

Dare e ricevere

C'è un episodio della mia vita da studentessa fuori sede che non ho mai dimenticato, nonostante siano passati quasi dieci anni. 
Mi capita di raccontarlo e, oggi, non so perché ci stavo pensando. O forse lo so il perché.
Pensavo a mio padre che mi ha insegnato a cui somiglio più di quanto si creda, al fatto che magari anche lui ha un brutto carattere, ma che è sempre stata una persona di cuore.
E' stato lui a trasmettermi l'idea -giusta o sbagliata che sia- che condividere non è mai sbagliato, basta stare attenti a chi potrebbe approfittarsene. Non sono forse ancora in grado di capire chi potrebbe approfittarsene e chi no, forse non sarò mai in grado, dico praticamente sempre di si e spesso mi aspetto che siano gli altri a capire quali sono i limiti che non andrebbero superati. In questo, mi sa che sbaglio. Dovrei imparare a dire di no, a non essere sempre disponibile, ma ormai è troppo tardi per cambiare.
Comunque, dicevo: c'è questo episodio della mia vita da fuori sede che è sempre impresso nella mia mente.
Dividevo la casa con due persone, la mia dispensa era sempre piena perché non ho mai adottato lo stile di vita del mangio pasta in bianco tutti i giorni e vediamo che succede. E poi, mi è sempre piaciuto cucinare.
Era sera, un coinquilino aveva ospiti a cena, io stavo per uscire e chiesi se potevo prendere un grissino. Mi rispose: "No, perché tu non hai pagato per questo".
I commensali lo guardarono sconvolti, io rinunciai al grissino ringraziando.
Il giorno dopo -si proprio il giorno dopo, non fu neppure necessario aspettare chissà quanto- ero seduta in cucina e arrivò il coinquilino, aprì la mia dispensa, prese un pacco di pasta e delle scatolette di tonno e si preparò il pranzo. Scoprì da solo -parlando con l'altra coinquilina- dopo pochissimo che aveva preso delle cose mie senza neppure chiedermele, io non avevo detto nulla e mi disse che mi avrebbe dato i soldi.
"E' un pacco di pasta e qualche scatoletta di tonno, figurati se voglio i soldi, ma ci mancherebbe".
Credo che la sua faccia cambiò colore dal rosso al viola, passando per l'amaranto in tre minuti. A me veniva da ridere, come sempre.
Nella mia dispensa, c'erano anche tre pacchi di grissini a quel punto. Quelli grossi, che stanno tanto bene con una fetta di prosciutto crudo arrotolata intorno.
Non mi hanno mai fatto impazzire i grissini, i Torinesi poi non ne parliamo, sono troppo sottili per i miei gusti, li mangio giusto per disperazione se proprio non ho altro.
Nella vita, ho dato e ricevuto. A volte ho dato più di quello che ho ricevuto, altre volte ho ricevuto più di quello che ho dato. Credo sia normale così. Succede.
Quello che ho dato, l'ho preso e l'ho scordato. Quello che ho ricevuto ho sempre cercato di portarmelo nel cuore, anche se a volte probabilmente ho dimenticato anche quello. Non si dovrebbe fare, ma succede.
Non ho mai avuto cuore di rinfacciare a qualcuno quello che avevo dato, ma mi è capitato di averlo  avuto rinfacciato.


In questi ultimi giorni, c'è qualcuno che crede di starmi dando chissà cosa, io in realtà vedo tante cose che non mi piacciono, ma come sempre lo tengo per me. Ringrazio e porto a casa. E non faccio l'elenco di quelli che sono i miei sacrifici perché se non li vede da solo, sarebbe inutile. Prima o poi se ne renderà conto. O forse no. A me comunque non cambierà nulla.
Penso però a quel grissino negato che forse costava meno di un pacco di pasta e di qualche scatoletta di tonno, ma mi ha insegnato tantissime cose.

La foto del post è di Samira El Bouchtaoui
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giovedì 16 marzo 2017

Ci sposiamo perché

In principio, era una cosa che sapevano in tre: i miei genitori e mia suocera.
Dopo tre ore, era una cosa di dominio pubblico, roba che persino gli amici del cane ci hanno telefonato per congratularsi.
Che poi, io sono tonta -l'ho sempre detto- e stavo lì a chiedermi: "Ma si congratulano di cosa?".
Stiamo insieme da sei anni e viviamo insieme da sei anni.
Abbiamo affrontato periodi felici e periodi tristi, periodi di ricchezza e periodi di povertà, periodi di salute e periodi di malattia.  Ci siamo appoggiati l'uno sulle spalle dell'altro: se le mie non sono abbastanza larghe per sopportare, ci sono le tue.
Avevo 24 anni che mi sembrano sempre troppo pochi. Lui ne aveva 27.
Abbiamo deciso di vivere come una famiglia, quello che è mio è tuo, quello che è tuo è mio, anche quando quello che c'era non era abbastanza per una persona sola. O forse la verità è che non lo abbiamo deciso, è venuto così.
Così chiacchierona io, così silenzioso lui.
Così razionale lui, così folle io.
Due caratteri essenzialmente di merda, ve lo assicuro, ma in un modo o nell'altro siamo ancora qui.
E si, litighiamo anche noi. Un paio di volte l'anno e non perché non avremmo validi motivi per litigare, ma perché, se alziamo il voce, il cane si incazza, comincia ad abbaiare e salta da una parte all'altra per riportare l'ordine. E' lui che comanda in questa casa, che vi pare?
Sei anni a me sembrano tantissimi, troppe cose sono successe, troppe persone sono passate dalla nostra vita. Abbiamo fatto tanti progetti, alcuni dei quali non sono stati rispettati e non per nostra volontà.
Sapete che avevamo già in mente di farlo due anni fa e poi un piccolo inconveniente ci ha fatto desistere? Credo sia stato lì, mentre affrontavamo quell' inconveniente, che abbiamo capito che poteva essere per sempre. O almeno io spero che sia per sempre. E so che anche Lui lo spera.
E quindi insomma, nel perfetto stile che ci contraddistingue, ci siamo guardati in faccia e abbiamo detto: sposiamoci. Per scherzo.
Poi ci siamo riguardati in faccia ed è venuto così.
Va be', chiamiamo in comune e chiediamo come fare per le pubblicazioni. Ho chiamato io.
"Salve, scusi, io vorrei fare delle pubblicazioni di matrimonio, che devo fare?"
"Matrimonio civile o religioso?"
Tu non mi conosci, lo so, se no non me lo chiederesti.
"Avete già prenotato una location?"
"Una che?"
"Avete per caso scelto una location per i matrimoni farlocchi?"
Ok, non ha detto farlocchi, ma il senso era quello. Le cerimonie finte, avete presente?
"Ehm, no"
"Avete in mente una data?"
"Ehm, no"
Poi si è rassegnata. 
"Quando le volete fare le pubblicazioni?"
"Subito?"
"Vedo quand'è  primo appuntamento disponibile"
E così il primo appuntamento disponibile per le pubblicazioni è diventato il nostro appuntamento per le pubblicazioni di matrimonio.


E ve l'ho detto: in principio, era una cosa che sapevano in tre: i miei genitori e mia suocera. 
E ho anche detto che dopo tre ore, era una cosa di dominio pubblico, roba che persino gli amici del cane ci hanno telefonato per congratularsi.
E in tanti fremono per sapere la data. E sapete che c'è? Che io la data me la tengo per me.
No no, non me la sto tirando.
Ci sposiamo per noi, per questi sei anni. Ci sposiamo perché vogliamo essere marito e moglie, perché forse mancava solo questo. Ci sposiamo a modo nostro.
Lo sposo perché anche quando ho il gesso, non mi posso muovere e sono oggettivamente brutta, mi guarda e mi dice che sono bellissima. E a me viene da ridere, come sempre.
Mi viene da ridere perché non sono mai stata così felice come lo sono adesso, la mia vita non è mai stata così completa. Sono circondata da cose belle, non manca niente. 
Ci sposiamo e non faremo una festa con quattrocento invitati. Nemmeno con cento, se per questo.
Abbiamo scelto qualcosa di diverso. Molto diverso. Anche se noi resteremo uguali.
E l'unico vero dilemma che ho adesso è: mi metto un paio di jeans chiari o un paio scuri? Sono dettagli importanti.

Ps. Non auguri e congratulazioni, ma opere di bene. 
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mercoledì 15 marzo 2017

Quelli del sud (che fanno più fatica degli altri ad emigrare)

Qualche tempo fa ho sentito una frase che mi ha colpito parecchio: quelli del sud fanno più fatica degli altri ad emigrare, quindi alla fine preferiscono rimanere a casa loro.
Mi ha colpito questa frase, ma l'ho messa di lato. Ci ho ripensato dopo un po', come mi capita spesso con le cose che mi colpiscono.
Sono nata a Palermo. I miei genitori non sono palermitani: mia madre è di una località turistica a circa 60 km da Palermo, mio padre è veneto. Io sono l'unica palermitana doc della famiglia.
Avevo diciotto anni quando ho iniziato a vedere i miei amici andare via.
Era il 2004, l'anno del diploma, quell'anno l'università aprì i battenti in ritardo rispetto al solito, prolungandoci di fatto le vacanze e dando più tempo, a chi non sapeva cosa fare, di scegliere. Molti scelsero di andare via.
Diversi amici decisero di studiare a Milano, qualcuno a Bologna. Io feci la cosa più semplice del mondo: andai in Viale delle Scienze, a Palermo, e mi iscrissi ai test per due differenti corsi di laurea.
Qualcuno decise di andare a fare il cameriere a Londra. Erano i tempi in cui non esistevano i gruppi su Facebook che ti davano qualche dritta.  Non c'erano neppure gli Smartphone, se per questo.
Qualcuno in casa non aveva il computer, figuriamoci la connessione ad internet. Rari casi, ma c'erano.
Londra, dove ero stata in vacanza, sembrava lontanissima, soprattutto per un diciottenne. Lontana e grigia, così diversa da Palermo.
Tornavano a Pasqua, l'estate e a Natale. In alcuni casi, anche l'1 Maggio.

Sapete, Palermo è una città bellissima. Non è enorme, ma neppure piccola
Quando avevo diciotto anni io c'era ancora il Baretto, erano da poco passati di moda la Sirio (o era il Sirio?) e il Royal -che credo non esista più- e il Paramatta aveva già cambiato nome.
Resisteva il Goa e forse anche il Maneggio.
Ricordo comunque che passavo i sabato pomeriggio al Viale -che aveva un buffet strepitoso per l'aperitivo- e che iniziava a prendere piede la moda dei Candelai.
Si sta bene a Palermo, il sole non manca mai, anche se quando piove ci sono zone che si allagano.
Si mangia bene e si spende poco.
C'è il mare. Ovunque. A vent'anni la condizione di isolana cominciò a starmi stretta, non ricordo neppure perché. Vedevo mare ovunque, ma mi sarebbe bastato girarmi dall'altra parte per vedere la montagna.
C'era poco lavoro anche quando non c'era la crisi, anche se io ricordo che praticamente tutti i genitori dei miei amici -mamme e papà indistintamente- lavoravano. Tutti lavori di un certo tipo per altro.
Oh no, non voglio sminuire nessuna professione. Non lo farei mai. Però, davvero, erano tutti medici, avvocati, insegnanti, biologi, avvocati, architetti. 
Non so cosa sia successo ad un certo punto. Non so quando si è iniziato a non trovare lavoro, non so neppure se sono nata nella parte fortunata della città, quella in cui tutti avevano un lavoro e stavano bene, quella in cui i genitori si potevano permettere di mandare i figli a studiare fuori pagando d'affitto per una stanza quanto a Palermo paghi per un appartamento di 150 mq.
Quello che so è che da Palermo sono andati via (quasi) tutti. 
La mia generazione, quella nata negli anni '80, a Palermo manca.
Quelli che erano andati a studiare a Milano, ci sono rimasti.
Quelli che erano andati a fare i camerieri a Londra, adesso sono top manager di ristoranti chic.
Quelli che erano rimasti a studiare a Palermo, gli studi li hanno finiti da un'altra parte.
Quelli che gli studi li avevano finiti a Palermo, il lavoro lo hanno trovato altrove.
Quelli che il lavoro lo avevano trovato a Palermo, ad un certo punto hanno deciso di seguire il fidanzato o la fidanzata di sempre altrove. Magari a Palermo ci sono tornati a sposarsi.
Quando torno a casa, se non è Natale o il mese di Agosto, non ho praticamente nessuno con cui andare a bere un caffè, fatta eccezione per quei quattro o cinque irriducibili che a Palermo ci sono rimasti, attaccandosi con le unghie e con i denti a quella città così speciale.
Conosco anche qualcuno che a Palermo ci è tornato: mi viene in mente Caterina che ha abitato a lungo a Milano e poi, con cane al seguito, se n'è tornata lì, prima dai suoi genitori e infine si è trovata un appartamento tutto suo.
Tutte le volte che vado a Palermo, mi metto seduta per terra in balcone e guardo il mondo attraverso la ringhiera. Se giro la testa a destra vedo Monte Pellegrino, se la giro a sinistra vedo Mondello.


A volte ci penso. Ci penso sul serio.
Penso a tutte quelle persone che sono passate dalla mia vita: compagni di scuola, di università, amici di amici, cugini di amici.
Penso a quanta gente ho conosciuto, al fatto che uscire il sabato sera equivaleva a fermarsi a salutare decine e decine di persone.
Adesso non conosco praticamente più nessuno, quando esco spesso incontro persone che frequentavo un decennio fa e non mi salutano perché non mi riconoscono neppure. Poi magari si fermano a parlare con qualcuno che è lì con me e mi dicono: "Ah ma sei tu? Non ti avevo riconosciuto! Ma sei a Palermo?"
Tante volte mi sono trattenuta dal rispondere: "Se mi vedi qui, probabilmente si, sono a Palermo".
Penso spesso che c'è gente che non incontrerò, che in quel momento è chissà in quale parte del mondo. Persone che probabilmente non vedrò più e che magari, per anni, ho visto tutti i giorni.
Gente che se n'è andata per realizzarsi, per cercare qualcosa di meglio o semplicemente perché non si è girata a guardare la montagna quando il mare gli stava stretto.

E io non lo so mica se è vero quello che mi hanno detto ovvero che noi del sud facciamo fatica ad emigrare e preferiamo restarcene a casa nostra. Forse soffriamo più di altri, ma se c'è da andare via, ce ne andiamo in cerca di un futuro migliore, ma la verità è che ci sarebbe voluto più coraggio a restare e in tanti non lo abbiamo avuto.
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lunedì 13 marzo 2017

Peso meno con il gesso che senza

Io sono un sacco di cose: sono allegria, sono stupidera, sono frivolezza, sono follia, sono (ogni tanto, a piccole dosi, quando mi ricordo) genio, sono permalosità, sono dolcezza, sono gentilezza, sono rabbia. Sono tante, tantissime cose.
Sono anche febbre a 39° e uno stomaco che, tanto per cambiare, se n'è andato per i fatti suoi. 
Sono sopravvissuta anche a questo.
Non mi veniva granché da ridere stavolta, eh.
Credo comunque di aver dormito quasi tutto il tempo, tra una lamentela e l'altra.
Ho la casa piena di fiori.
Ho ricevuto un sacco di coccole.
Ho dovuto dire a qualcuno: "Ehm, forse non è il caso che mi vieni a trovare" perché proprio non mi reggevo in piedi. A quest'ora avrei ancora più fiori. Forse una borsa gialla in più. Magari anche una teglia di ravioli al salmone fatta in casa.
Non mi piace il gesso. Lo tollero, mi fa ridere la situazione, ma non mi piace.
A Milano mi avevano detto che non potevano togliermi loro il gesso in quanto fuori regione.
In ogni caso, a Milano, non potevano neppure farmi le impegnative per le medicine. 
Fidanzato si é sparato 600 km e ha organizzato in trasferimento in grande stile per riportarmi a Roma. Mancava solo il tappeto rosso lungo tutto il G.R.A. So che l'unico motivo per cui non c'era è che avrebbero dovuto vietare l'accesso alle auto per metterlo e forse non era esattamente il caso.
Ho prenotato la visita per la rimozione del gesso, il giorno che mi hanno detto loro.
"Signorina, lei lo sa che non è detto che il gesso glielo tolgono quel giorno, vero?"
"Ehm, in che senso?"
"Valuteranno sul momento se è pronta o se è il caso di tenerlo ancora"
"Ah si certo, ci mancherebbe"
La risposta corretta era qualcosa tipo: "Dopo venticinque giorni di gesso, se non me lo togliete, me lo smuro con martello e scalpello", ma sono stata educata. L'educazione mi contraddistingue (quasi) sempre.
"Deve portare le lastre che le hanno fatto a Milano"
Che non ho.
"Certo, le ho già richieste all'ospedale, mi hanno detto che me le avrebbero spedite"
"Eh, ma con la posta non si sa mai"
"Confido nell'ottimo servizio delle nostre poste"
Anche l'ipocrisia mi contraddistingue a volte. 
É stato a questo punto che, prima della febbre, ho iniziato a tampinare l'ospedale milanese, implorando di mandarmele con il piccione viaggiatore piuttosto che con una raccomandata.
"Se non dovessero arrivarle le lastre, la procedura è diversa, deve fare la fila al pronto soccorso per farsi togliere il gesso"
"Certo, ma vedrà che arriveranno"
Nel frattempo pensavo a qualcosa tipo: "Ok, smuro il gesso con martello e scalpello, faccio una lastra nuova, lo rimonto con la colla".
Si può rimontare il gesso con la colla nel caso, vero? 
"Lei sa che dovrà mettere un tutore, valuteremo un'operazione, la fisioterapia, un ginocchio nuovo?"
"Certo, ci mancherebbe".
Respira Gilda, respira. Conta fino a 1000.
Tra qualche tempo -né troppo, né troppo poco- c'è una gara di ginnastica artistica a cui tengo tantissimo. Ho già saltato la prima gara dell'anno ed è stato motivo di disperazione.
Abbiamo prenotato l'hotel sei mesi fa, era tutto organizzato nei minimi dettagli.
Il mio ginocchio rotto ha fatto saltare i piani non solo miei, ma anche di qualcun altro. 
L'hanno presa sportivamente gli altri, un po' meno io.
Mi hanno detto che mi ci portano anche con il gesso a questa gara. Mi hanno detto che in campo gara mi ci fanno arrivare in qualche modo, che ci pensano loro a me. Che si trova il modo di farmi stare comoda. Io ero disperata. 
E sapete la cosa bella? Che mentre io mi disperavo, è intervenuto un mio amico -che è in sedia a rotelle- e mi ha detto che era fattibilissimo andare a questa gara. "E se lo dico io" mi ha detto.
"Io mi attacco a te, nel caso" gli ho risposto.
La verità è che davvero non si sa se potrò esserci, ma è stato bello, mi ha fatto venire voglia di lamentarmi di meno, di essere meno fifona.
É che il gesso pesa.
Dopo la febbre, mi hanno rimessa in piedi, nel vero senso della parola.
La mamma mi ha lavato i capelli e Lui me li ha asciugati. Non è roba da poco, per asciugare i miei capelli ci vogliono ore. Io li ho pettinati, però.
Ho messo lo smalto che il ginocchio sarà anche rotto, ma le unghie -almeno quelle- sono sane.


"Fai una cosa, pesati così vediamo se davvero il gesso è pesante come dici"
Sono salita sulla bilancia e guardavo il display. Poi mi sono guardata intorno, spaesata.
"Che succede?"
"É che quando mi sono pesata l'ultima volta pesavo 3 kg in più. Senza gesso"
"Quindi non sapremo mai quanto pesa il gesso"
"Secondo me, pesa almeno dieci kg"
"Sei sempre esagerata, sarà un kg, al massimo due"
"Facciamo cinque"
In ogni caso, peso meno con il gesso che senza.  Certo che la vita è proprio strana.
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lunedì 6 marzo 2017

Dieci cose (più una) che succedono se si ha una gamba ingessata

Non ho mai avuto il gesso e questo mi sa che era chiaro a tutti. 
In due giorni di gesso ho scoperto delle cose estremamente interessanti, interessantissime oserei dire:
-Più passano le ore, più il gesso diventa brutto: il mio gesso sembrava un' opera d' arta quando me l' hanno modellato addosso. Dopo neppure 48 ore mi sembra quasi che si stia sformando, giuro.
-Se sto in piedi con le stampelle il piede diventa nero: questione di circolazione, me l'avevano detto. D'altronde stringe il malleolo e al mio piedino da fata non arriva il sangue. Ecco perché devo stare sdraiata a guardare il soffitto.
-La notte non si dorme: di giorno il ginocchio fa male, ma è sopportabile. Di notte non ci sono antidolorifici che tengano. Dicono sia normale, io che ho sempre sonno mi arrabbio.
-Il gesso è duro e pesante: grazie al c***o direte voi, è gesso. A me avevano detto che sarebbe diventato leggero, ma è evidente che la mia idea di leggero è diversa da quella altrui. Non riesco a spostare la gamba da sola nel letto, devo sollevarla con le mani se proprio voglio farla muovere di un cm. 
-Il gesso produce calore: altro che termosifoni, altro che tute in pile, altro che coperte di lana. Dentro al mio gesso ci saranno 45° percepiti.
-Il gesso produce prurito: prude tutto e non ci si può grattare. Oh lo so, basterebbe un ferro da uncinetto, ma dove lo trovo un ferro da uncinetto? E comunque in certi punto è così stretto che non passerebbe. Mi tengo il prurito.
-Non posso mettermi i calzini da sola, figuriamoci eventuali scarpe e non posso manco andare al bagno da sola: giustamente il gesso sta lì per non fare piegare la gamba, lo capisco, quindi niente calzini, niente scarpe e niente bagno. Cioè al bagno ci vado, ma sto sviluppando doti circensi non indifferenti.


-Sono degna figlia di mio padre e ho imparato in 24 ore a farmi le punture da sola: si chiama disperazione credo. Le punture andranno pur fatte che se no mi viene una trombosi e magari è meglio evitare.
-Il gesso provoca paranoie: stanotte mi sono svegliata in preda ai crampi al polpaccio (l' ho detto che non si dorme) e ho telefonata a chiunque per chiedere se fosse normale. "Non è che è la mia gamba che sta andando in cancrena?". Io, giuro, non so da dove mi vengono queste cose, ma sono fatta male, non è colpa mia.
-Posso indossare solo tute sformate e pigiami di due taglie più grandi: non mi entra nulla. NULLA. È troppo ingombrante sto coso, praticamente tutti i miei meravigliosi vestiti mi guarderanno dall' armadio per un pò facendomi ciao con la manina, tipo le caprette di Heidi.
-Un gesso muove il mondo: non sono abituata a stare ferma, completamente nelle mani degli altri e questo lo sanno tutti. Per far si che io possa stare bene si è mossa la mia famiglia, il Fidanzato, i miei cognati tutti (e credetemi sono tanti), mia suocera, gli amici. Eh si perché io sono sola a Milano e bisognava come prima cosa evitare che rimanessi ci troppo da  sola perché -vedi sopra- non sono in grado di fare quasi nulla senza un aiuto. 
E quindi, come sempre, grazie. 
Grazie per non avermi lasciato sola e grazie per essermi sempre vicina quando succede una disgrazia. La prossima volta faccio in modo di rompermi un braccio, così almeno a fare la pipì ci vado da sola.


Nb. Ho provato a far sembrare la foto il più simmetrica possibile, ma mi sa che si vede che il piede sinistro non poggia per terra. Così come, mi fanno notare, la caviglia sinistra sembra un tonno: sappiate che non sono un tonno, è il gesso che mi rende tonno. E a me, il tonno, manco mi piace.


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domenica 5 marzo 2017

Ho un ginocchio rotto e mi viene da ridere

Il ginocchietto è rotto. Rottissimo, distrutto, andato.
Non me l' hanno detto, ma secondo me stavano pensando di amputarlo.
Qualcuno sosterrà pure che io sia stupida, ma ecco, alla dodicesima lastra in mezzora, ho capito che sto ginocchio proprio bene non stava.
È arrivata un' infermiera tanto carina, ha afferrato la mia sedia a rotelle e mi ha portata in sala gessi.
"Adesso mettiamo il gesso che il ginocchio è messo proprio male".
"Gesso in che senso?"
"Dobbiamo ingessare, ma tranquilla che non ti ingesso tutta".
Non so che intendesse con non ti ingesso tutta visto che sto benedetto gesso parte dalla coscia e arriva alla caviglia. E io non ho neppure lo smalto sulle unghie dei piedi, cosa per la quale sarà necessario provvedere quanto prima.
"Chi ti aspetta fuori?"
"Ehm, nessuno"
"E come sei venuta?"
"Ehm, coi mezzi"
"Con un ginocchio in queste condizioni?"
"Ehm, sta messo tanto male?"
"Malissimo, hai qualcuno da chiamare?"
"Si, sa Fidanzato e genitori sono lontani, ma ho qualcuno"
Quel qualcuno, fida compagna di classe e amica dal lontano 1999, è arrivata in venti minuti, con tanto di leggins enormi mimetici perché i miei jeans avevano fatto una brutta fine. E comunque sta moda dei jeans skinny deve finire che poi ti rompi un ginocchio, ti ingessano e, nella migliore delle ipotesi, non ti entrano più. Nella peggiore, te li tagliano direttamente.
Io comunque quando sono stata riportata nel micro monolocale ridevo, ma proprio di brutto.
La verità è che io rido quasi sempre e sta storia del ginocchio mi fa ridere parecchio.
In primis perché ho passato tutta la mia vita a prendere in giro Madre e Fidanzato perché loro, dovete sapere, nel corso della vita hanno avuto gesso ovunque. Chili di gesso. E io, da bravo gallo cedrone che fa chichirichi, mi sono sempre bullata: "Io non mi sono mai rotta niente, figuriamoci mettere il gesso". Eccola là, si dice a Roma. Devo imparare a tacere.
Poi perché a me avevano raccontato la storiella che ormai se qualcuno si rompi mica lo ingessano. "Al massimo mettono un tutore". A me invece super gesso, tutore più avanti. Venticinque giorni di gesso, se tutto va bene.
Che poi, perché venticinque e non trenta per fare conto pari?
Il ginocchio andrà quasi sicuramente operato, dico quasi perché sai mai che cambiano idea. 
Non dimentichiamo, quando ridiamo a crepapelle per la questione, che per rompere una rotula, di norma, bisogna prenderla quanto meno a martellate. E io giuro che non mi sono presa il ginocchio a martellate. 
"La rotula non si rompe mai" dicevano. Mentivano anche stavolta.
E infine, teniamo bene a mente che, con stupore di tutti, io con la rotula rotta ci ho anche camminato. O certo, non  poggiavo la gambina per terra, saltellavo piangendo e lamentandomi con mia madre al telefono, ma comunque ci sono andata in giro. Adesso capisco perché le vecchiette volevano cedermi il loro posto sui mezzi pubblici.
Insomma, sarà che io affronto tutto ridendo che tanto piangersi addosso non serve, ma ieri sera ridevo come una matta.
Ad un certo, una mia amica mi ha detto: "Ma possibile che ti sei rotta un ginocchio e ridi?"
"E che devo fare? Piangere?"
Che poi fa anche ridere che questi gessi moderni che secondo loro sono più leggeri in realtà pesano tantissimo, ma non ci si può disegnare e scrivere perché il gesso è sotto, ma sopra ci sta una sorta di fasciatura. Per tenerlo fermo, dicono.
Io ricordo bene che i miei amichetti che si spezzavano i gomitini cadendo dagli alberi o le gambine pattinando avevano dei bellissimi gessi pieni di scritte colorate. E io invece ho il gesso farlocco.
Scusate, ma lo trovo ingiusto e sono certa che sarete d' accordo.
E immagino che siate anche d'accordo che con me non ci si annoia mai: insomma, ne ho sempre una e stavolta ho superato anche me stessa.
Ah, a proposito: quando facevo le punture a Fidanzato -quelle per evitare trombosi e affini che andrebbero fatte sulla pancia- l' ho preso in giro perché "Ma dai, a trent'anni non vuoi le punture sulla pancia, ma te le devo fare sul braccio? Ma che sarà mai una puntura sulla pancia!"
Le punture io chiaramente me le sto facendo fare sul braccio che quando ho sentito pancia stavo per svenire, ma questo è un dettaglio.
Gli ho anche detto qualcosa tipo: "Ma che sarà mai camminare con le stampelle? Sembra così facile". 
Stamattina un' altra amica con padre al seguito mi ha portato le stampelle. 100 km ad andare e 100 a tornare, forse pure qualcosina in più, per portarmi ste cavolo di stampelle che ieri, quando sono uscita dall'ospedale, era tutto chiuso e non c' era modo di comprarle da nessuna parte.
Le ho messe sotto braccio, ho guardato i presenti -amica, padre e compagna di classe dal 1999 venuta a farmi da infermiera- e ho detto: "Ok, e ora?".
Mi hanno fatto il corso accelerato di camminata con le stampelle, a me è venuto male a tutti i muscoli del mondo e niente, ho capito che la prossima volta è meglio che stia zitta.


E quindi io rido col mio ginocchietto, il mio gesso duro da morire (mi hanno comunque fatto notare che un gesso mollo non si è mai visto) e voi, mi raccomando, non ditemi che vi dispiace o cose simili. Ridete anche voi che, ecco, sono oggettivamente un cartone animato.
Io intanto cerco di capire se mai riuscirò a farmi una doccia con il gesso. No, vero?

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venerdì 3 marzo 2017

Piccole cose che trasformano una giornata normale in una bella giornata

Ieri mattina mi è arrivato un messaggio bellissimo.
Mia madre mi ha scritto che mi avrebbe fatto una sorpresa. 
Io non sono il tipo di persona che può mettersi ad aspettare una sorpresa, l'ho chiamata subito e le ho detto: "Dichiarare sorpresa".
Al lavoro non rispondo mai al cellulare e difficilmente guardo i messaggi. Lei questo lo sa.
"Scusa, ma tu non sei quella che non guarda mai il telefono al lavoro?"
"Il tuo messaggio è arrivato proprio nel momento in cui stavo facendo dieci minuti di pausa"
Ho una madre che arriva sempre al momento giusto, insomma.
"Ti passo papà"
"Ciao papà"
"Mamma viene a Roma, così sta un po' con te"
Mi sono scese le lacrime e non riuscivo a parlare.
E io so che è una cosa piccola piccola, ma non vedo i miei genitori da mesi, il tempo passa e io so che non sono eterni. E poi a me piace passare del tempo con loro. 
Dico sempre a mia madre che sarebbe bellissimo abitare nella stessa città, passerei sempre a trovarli e tante cose sarebbero più semplici, ma sappiamo tutti che non è possibile.
A casa nostra, io sono spesso sola a cena, causa lavoro del Fidanzato. Mi piace immaginare che se vivessi vicina ai miei, qualche volta potrei andare da loro, anche perché -ecco- mia madre cucina sicuramente molto meglio di me. 
E poi sa cucinare i carciofi in almeno centro modi diversi, mentre io mi fermo allo step in cui fisso i carciofi dal fruttivendolo e penso che bisognerebbe quanto meno prima pulirli, ci sono le spine, le spine pungono, se mi pungo sanguino, se sanguino Fidanzato sviene, se lui sviene il cane si agita e quindi, insomma, niente carciofi.
Mi piace immaginare, a volte, di poter avere la mia mamma pronta a tenermi la mano quando sto male. Non sempre è possibile, purtroppo.


Quindi a Roma troverò non solo il Fidanzato ad aspettarmi, ma anche la mamma.
Per vedere entrambi i genitori insieme mi tocca aspettare ancora un pochino, ma io sono paziente.
La mamma porterà del cibo, tanto cibo. E le stampelle che tutti si sono passati: le ha usate lei e le ha usate anche Fidanzato. Pareva effettivamente brutto che non le usassi anche io, no? 
Come sempre, quasi guarita da una cosa -si, mi porto ancora dietro gli infiniti problemi all' apparato digerente- me n' è venuta un' altra.
Ho spaccato un ginocchio e ancora in giro si chiedono come ho fatto visto che io non ne ho memoria. Alle domande ho risposto qualcosa tipo: "un giorno non mi faceva male e il giorno dopo si"
"Ma hai fatto qualcosa? Hai sbattuto? Sei caduta?"
"No, me lo ricorderei"
E quindi mi tengo il ginocchio spaccato -lo curo, mi ha vista il medico e mi rivedrà a breve, giuro- e continuo ad accettare quasi sempre il posto che i novantenni mi cedono in metro, vergognandomi come una ladra.
Io lo so che al circolo delle bocce parlano male di me. "Hai visto quella giovinotta zoppicante che manco io quando avevo ottant'anni e il femore rotto camminavo così?" avrà detto uno dei novantenni all' amico centenario. 
So anche che sentirmi parlare di continui malanni mette ansia ai più, ma sappiate che io sono abituata. Insomma, è da quando avevo 14 anni che finisco di continuo in ospedale in codice rosso, cosa volete che sia una fratturina al menisco?
Comunque, i genitori non l' hanno detto, ma tra le cose che so c' è anche quella per cui sono perfettamente al corrente del fatto che la mamma -anche conosciuta come la generalessa- viene anche a controllare il mio ginocchio, il mio apparato digerente, che mangio abbastanza, che ho i soldi per il gelato e per telefonare a casa se serve.
E insomma questa è la vita: piena di piccole cose che ci rendono felici, ci regalano un sorriso, trasformano una giornata normale in una bella giornata.


Qui e qua trovate qualcosa di interessante sul tempo passato con la mamma.
La foto del post è di Beata Lenkiewicz.

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mercoledì 1 marzo 2017

Il rispetto della vita e della morte

Quando ero poco più che adolescente, una persona che ho amato e amo tuttora, nonostante non sia più qui, si è ammalata.
Una malattia brutta, cattiva. Ancora adesso, quando ci penso, ho i brividi.
A volte, ripensando a quella persona, mia nonna materna, mi viene da piangere. 
Mi chiedo se sapeva quanto l'amavo.
Mi chiedo cosa sarebbe successo se fosse stata ancora accanto a me, cosa avrebbe pensato dell'uomo che mi sta accanto. Mi chiedo cosa avrebbe provato il giorno della mia laurea.
Lei mi amava moltissimo, più della sua stessa vita, questo lo so. 
Io ero una ragazzina e non so se l'ho amata abbastanza, o meglio non so se lei lo sapeva quanto l'amavo.
Vado da lei quando posso, so che per molti è una cosa stupida, io invece vado lì, mi siede, chiacchiero, immagino le risposte e so che mi sente.
Non sono credente, ma è un modo per sentire vicina questa persona. E credetemi che, almeno per me, funziona.
A volte alzo gli occhi al cielo e le chiedo: "Ma tu che faresti in questa situazione?" e, in un modo o nell'altro, mi arriva la risposta.
Questa è una confessione molto intima, ma non è questo il punto.
Quando lei si è ammalata, mia madre le ha provate tutte. Qualsiasi cosa fosse possibile, lei l'ha provata. Anche qualcosa di impossibile, a dire il vero. Ha chiesto, ha girato, è andata ovunque. Ci ha provato. Non ci è riuscita. Ad un certo punto, ci siamo dovuti arrendere.
Lei era una bella donna, curatissima, piena di vita. Usciva, viaggiava, era piena di amiche. Era anche giovane: aveva 71 anni, ma ne dimostrava almeno dieci di meno.
Aveva un grande cruccio, quello di essere sopravvissuta al suo unico figlio maschio tanto amato e anche un po' viziato, ma aveva reagito. Era una donna con le palle.
Ha lottato, ci ha provato. Non ci è riuscita, la malattia l'ha annientata nel giro di pochissimo tempo.
Era lo scheletro di se stessa, magrissima, sofferente.
Io me la ricordo la morfina. Me la ricordo bene. E quando ci penso, mi scendono le lacrime.
Mi ricordo le trasfusioni di sangue, è stato lì che ho smesso di impressionarmi alla vista di quel liquido rosso che prima mi faceva cadere giù svenuta.
Mi ricordo una persona piena di vita che improvvisamente non si è più alzata dal letto.
Mi ricordo che per quattordici giorni non ha mangiato. Quattordici giorni senza mangiare.
Non si trovavano più neanche le vene in quei quattordici giorni.
Non c'era niente da fare, solo aspettare.
Soffriva lei -e tanto anche- e soffrivamo noi.
Non era una vita dignitosa, ammesso che vita si possa chiamare lo stare in un letto in quelle condizioni.
Non se lo meritava e non era quello che voleva.
Prima di questi quattordici giorni era stata un'escalation di sofferenze, la vita -intesa come qualcosa di bello- se n'era andata lentamente e quello schifo era culminato in quei quattordici giorni.
Lei capiva, sapeva. Soffriva e aspettava quello che stavamo aspettando tutti e che non sapevamo quando sarebbe arrivato.
Quattordici giorni non sono nulla, ci sono persone che soffrono molto più a lungo, ma quattordici giorni di sofferenza atroce agonizzando sono tantissimi per chi li vive.
I mesi precedenti erano stati tremendi. Una cosa orribile, me lo ricordo bene. Mi ricordo tutto quello che ha detto, mi ricordo bene anche questo.
Avevo diciassette anni e quando andavo a scuola la mattina avevo paura. Si, paura di non rivederla più quando sarei tornata a casa. E un giorno mi hanno chiamato e mi hanno detto che non l'avrei rivista.
Ai tempi, ero una ragazzina ve l'ho detto, pensavo fosse ingiusto che avesse avuto una fine così tremenda.
A trenta abbondanti vi dico che non è passato un giorno in cui non abbia pensato che avrei dato la mia vita per la sua, anche se non avrebbe accettato.
E visto che non avrebbe mai  accettato la mia di vita in cambio della sua, avrei dato qualsiasi cosa  perché se ne andasse un po'  prima, in modo dignitoso. 


Vorrei che quei quattordici giorni non fossero mai esistiti. Vorrei che non fossero esistiti nemmeno i cinque mesi precedenti.
Vorrei che tutti vivessimo e morissimo dignitosamente. Tutti.
Vorrei che ci fosse rispetto della vita. E anche della morte.

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