lunedì 30 gennaio 2017

Ogni (maledetto) lunedì

Oggi è lunedì. Un maledetto lunedì.
Fino ad un mese fa io amavo il lunedì, poi non so che è successo.
Adesso già la domenica sera divento malmostosa e il lunedì mattina vorrei lanciare la sveglia dalla finestra. Smetto di lamentarmi solo quando arrivo a lavoro e riprendo non appena esco.
È evidente che il lavoro mi mette di buon umore, a differenza del lunedì.
Ops, ho ripetuto quattro volte in cinque righe la parola lunedì. E' evidente che c'è un problema e anche bello grosso.


Stamattina il lunedì si è mostrato a me in tutta la sua perfidia: alle 7 avevo già la febbre a  37.9° , ma io -testarda come un mulo- volevo comunque andare in ufficio. Eppure mi hanno sempre detto che la mattina è sempre più bassa la febbre e aumenta nel corso della giornata.
Ho provato a prendere la macchina, ma niente, ha deciso di non partire e la colpa é pure la mia che ho lasciato accesso di tutto. La batteria mi guardava sicuramente col ghigno beffardo pensando: "Vaffanculo stronza!!!".
Alle 8.55 ero in ufficio, alle 9 è entrato il mio collega al quale è bastato un attimo.
"Ma che cosa hai?"
"La febbre"
"Vai a casa"
Ho resistito ben trentacinque minuti, poi ho preso il pc per poter lavorare da casa e sono andata via, anche perché -ecco- il collega aveva già creato una barricata per proteggersi da germi e batteri che potevo spargere. Non ha nemmeno voluto che mi avvicinassi troppo alla sua scrivania.
"Stai lontana" mi ha detto.
Trentacinque minuti di agonia in ufficio, seguiti da altrettanti di quasi morte sui mezzi pubblici febbricitante, accaldata nonostante gli 0° , con la borsa gigante da una parte e il pc dall'altra.
Dovrei tornare a usare le borse piccole e possibilmente metterci dentro solo lo stretto indispensabile.
E quindi, ufficialmente, sono entrata nel loop di quelli che odiano il lunedì.
Non ero riuscita a sedermi sulla metro, ad un certo punto ho detto a mia madre al telefono che non sapevo se mi stava salendo o meno la febbre, ma che probabilmente ero già a 38° e intorno a me si è fatto il vuoto. Un intero vagone metro a mia disposizione.
Che poi oh, voi che siete fuggiti sappiate che l'influenza non vi risparmierà. Anche io ho evitato accuratamente tutti gli untori che ho incontrato nel mio cammino, ma non è bastato.
Vero è che sabato non ho resistito al richiamo di Primark e, io che odio i centri commerciali, mi sono fiondata dentro quello che mi riferiscono essere il centro commerciale più grande d'Europa per spulciare ogni singolo scaffale di Primark. OGNI SINGOLO SCAFFALE. Non sto scherzando.
Tra la folla presente al centro commerciale c'era sicuramente un untore, io lo so. Ne sono sicura. Me lo sento.
Comunque, adesso che odio anche io il lunedì devo farvi sapere che: la macchina sarà sistemata stasera, grazie al padre di una mia amica che se ne sta occupando mentre io conto i germi sul divano completamente avvolta da una copertina di pile che manco mia nonna.
La dottoressa mi controllerà oggi pomeriggio, la febbre intanto -nonostante abbia più antipiretici che sangue in corpo- è sempre lì, fissa sui 38°.  
Mi avevano suggerito l'ospedale visti i precedenti e visto che ancora del tutto non mi sono ripresa, ma ecco, ne faccio a meno. La copertina e la tachipirina -sempre sia lodata- possono bastare.
Il mal di testa si è un po' affievolito, dandomi modo di stare davanti al pc a lavorare e studiare. Studiare milioni di cose in inglese che domenica è qua che arriva e io non solo dovrò essere completamente guarita, ma anche perfettamente in grado di lavorare in inglese.
E infine, se siete convinti che siano gli uomini a lamentarsi quando sono febbricitanti sappiate che ho già scritto il testamento. E ho lasciato tutto, borse e scarpe comprese, al cane.

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venerdì 27 gennaio 2017

Giornata della memoria: si può anche restare in silenzio

La mia professoressa di lettere delle scuole medie aveva un'ottava di seno. 
Che entrassero prima le sue tette e poi il resto è la cosa che ricordo meglio di lei.
Era cattiva, una stronza fotonica direbbero gli adolescenti di oggi, ma -a ripensarci adesso- sapeva il fatto suo.
Quando voleva insegnarci qualcosa che andava oltre il programma ministeriale, prenotava la sala cinema della scuola che altro non era che un'aula un po' più grande delle altre con un televisore fissato al muro e un videoregistratore. Le videocassette le portava da casa, credo le affittasse, ma non saprei dirlo con certezza.
La sala cinema si poteva affittare per un massimo di due ore consecutive. Il primo film che ci fece vedere fu Forrest Gump, voleva farci sapere che, qualche decennio prima era esistita una cosa chiamata guerra del Vietnam ed effettivamente riuscì a suscitare la nostra curiosità, considerato anche che le due ore di sala cinema non bastarono per vederlo tutto e fu necessario tornare a distanza di qualche giorno per vedere il resto. L'attesa ci trasformò in ragazzini curiosi che facevano domande su questa guerra e lei soddisfece volentieri la nostra curiosità.
A distanza di anni, ricordo benissimo Forrest Gump, ma se posso evito di vederlo ancora. 
Ad un certo punto, ci disse che aveva prenotato la sala cinema per farci vedere un film di Steven Spielberg e per noi piccoli fan di Jurassik Park e E.T. fu una notizia meravigliosa. 
Immaginavamo extraterrestri e dinosauri e da bravi undicenni eravamo felicissimi.
Chiese il permesso ai genitori per farci vedere questo film. Il motivo l'ho capito dopo anni.
Per i bambini della tv e del cinema a colori, un film in bianco e nero fu una delusione incredibile, non capimmo. 
"Perchè questo film inizia in bianco e nero?"
"Forse il colore arriva dopo".
E in effetti, il colore prima o poi arriva, prepotente e quasi fastidioso. Pesante per gli occhi e per la mente.
Era Schindler's list.


Mi ricordo la scena in cui una donna ai lavori forzati, dentro un campo di concentramento, da un suggerimento per svolgere al meglio un lavoro. Era un architetto.
La fecero uccidere con un colpo di pistola, salvo poi dare ordine di fare come aveva detto lei.
Ricordo ogni scena, ogni singola scena di quel film. Ogni dialogo, ogni parola. Ogni fotogramma.
Nessuno fece domande. Lei non disse nulla, aspettava -credo- una reazione da parte nostra che non è mai arrivata.
Non l'ho mai più rivisto e non intendo rivederlo. Eppure da sempre è tra i miei film del cuore.
Mio padre che si ricorda qualcosa della guerra anche se era solo un bambino, quel film non ha mai voluto vederlo.
Uno zio, dalla parte di mia mamma, era stato in campo di concentramento ed era tornato a casa a piedi. Magro magro, praticamente uno scheletro, e con i pidocchi. Sua madre non lo riconobbe.
Non ha mai fatto parola di quello che aveva visto lì, se si parlava dell'argomento cambiava stanza e se in tv trovava un film o un documentario sulla questione, cambiava canale. Nessuno ha mai saputo nulla.
Mi hanno spiegato la storia in questo modo, con un film e con qualche racconto. Qualcosa l'ho imparata dai libri di storia, ma poco.
Non ho mai fatto domande io che sono curiosa come una scimmia.
Ci sono cose che non vanno chieste, ci sono cose che si capiscono e basta.
Ci sono cose di cui non è necessario discutere. Si può anche restare in silenzio.



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mercoledì 25 gennaio 2017

Il primo mese a Milano

È passato più di un mese da quando ho ricevuto la notizia e meno di un mese da quando questa notizia si è concretizzata e sono arrivata a Milano.
Facciamo conto pari e diciamo un mese e buonanotte al secchio. (Carina l' espressione buonanotte al secchio, non trovate?).
Senza troppi giri di parole, è stato un mese duro, in cui se mi fossi dovuta descrivere con una parola sola non avrei avuto dubbi e avrei detto BIPOLARE.
Ho alternato momenti di euforia, a momenti di sconforto totale.
Euforia perché mi piace il lavoro, mi piace l' idea di avere una scrivania (dove non esiste più spazio per me visto che da ieri tutta la superficie è occupata da monitor), mi piacciono i colleghi e mi piace il mio capo che trasmette entusiasmo e non è roba da poco. Poi eh, è bolognese e si sa, a Bologna ho lasciato un pezzetto del mio cuore tanto che quando incontro bolognesi lungo il mio cammino mi vengono gli occhietti a cuoricino.
L' azienda mi ha preso un cellulare nuovo.
"Vuoi un I-phone?"
"Sia mai, io sono pro Android".
Essendo notoriamente tirchia pure coi soldi degli altri, ho speso la metà del budget a disposizione. 
Mi hanno preso un pc nuovo che è uno spettacolo e una serie di monitor che adesso non so più dove guardare.
Si avvicina la data di partenza per Stoccolma, che è stata posticipata rispetto alle previsioni iniziali. Ci abbiamo infilato anche un breve scalo a Copenaghen, non per scelta, ma perchè trovare un volo diretto per Stoccolma è angosciante, nonostante non sia manco così lontano. 
E si che io alla Scandinavia fino a ieri non avevo dato tutta questa importanza, fatta eccezione per un luogo non ben definitivo conosciuto come "Casa di Babbo Natale", dove il barbuto conserva i miei regali prima di portarmeli (anche i vostri, non preoccupatevi).

Passiamo ai momenti di sconforto.
A volte ho pensato di non essere all' altezza. 
E quando pensi t di non essere all' altezza, sei oggettivamente bipolare. E anche  paranoica (secondo aggettivo da usare nel caso in cui mi chiedessero di descrivermi con due e non con uno solo).
Il lavoro è molto più complesso di quanto previsto e se ci mettiamo che è svolto quasi interamente in inglese abbiamo fatto bingo.
Due giorni fa ho avuto il piacere di conversare amabilmente con un francese in inglese e ho pensato di morire tanto che avrei voluto dirgli "parliamo in francese, ti prego", ma c' erano uno svedese e altri due italiani (che mio padre al mercato comprò) e niente: inglese. Con accento francese.
Che poi eh, fa sicuramente più schifo il mio inglese con accento italiano, però non è che abbia capito granché.
Sento la mancanza del cane. E anche di Fidanzato. Soprattutto di Fidanzato, tanto che mi è salito un romanticismo che lui ad un certo punto ha pensato che Cupido si fosse impossessato del mio corpo. Bipolare, appunto.
Il top l' ho raggiunto quando ho detto: "Oh amore, non possiamo festeggiare  i nostri 5 anni e dieci mesi insieme". 
CINQUE ANNI E DIECI MESI. Disse quella che un anniversario di un paio di anni fa diede appuntamento al camion dei traslochi per smontare casa propria e rimontarla da un' altra parte. Che poi la casa fu montata il giorno dopo, quindi la sera dell' anniversario passò stando seduti su pezzi di parete attrezzata e scatoloni mangiando una pizza. Senza posate chiaramente, a mozzichi.
Mai festeggiato un meseversario -trovo anche abbastanza ridicola la cosa, non me ne vogliate- e probabilmente neppure gli anniversari. O forse si, non ricordo.
E poi c' è la questione casa da risolvere definitivamente. Mi serve una casa da appoggio per un periodo non troppo lungo, ma sembra un' impresa impossibile. Ma risolveremo anche questa.

Ho anche seriamente patito il freddo, sarà che non sono abituata, ma le temperature di un bel po' sotto lo zero mi avevano intristita. Oggi però splende il sole, le temperature si sono alzate e ho smesso di portare i collant sotto i pantaloni che, diciamo le cose come stanno, sono di una scomodità indicibile.


Quindi insomma, sono bipolare. E devo dire che questa me un giorno euforica e quello dopo sotto ad un treno mi è pure simpatica.

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sabato 21 gennaio 2017

Due anni di fatti, persone e cose che non possono essere veri

Sono passati esattamente due anni da quel giorno -che sembra lontanissimo- in cui ho deciso di aprire un blog.
Ci ho pensato un attimo e subito l' ho fatto, scrivendo il primo post (che trovate qui). A rileggerlo adesso mi sembra un post un pò stupido, ma da qualche parte bisognava pur cominciare, no?
Il nome del blog mi è balenato in mente, non ricordo neppure bene come, e quello è stato: non può essere vero era una frase che in quel periodo ripetevo spesso.
Me lo ricordo bene quel periodo, mi ricordo bene che avevo bisogno di occupare le mie nottate passate sveglia, sul divano, ad accudire Milly che si stava trascinando inesorabilmente verso la fine.
Mi mettevo a letto, poi lei mi svegliava muggendo (si, la mia Milly muggiva) e io mi alzavo, la prendevo in braccio (pesava 21 kg, povera schiena mia), la mettevo sul divano dopo aver controllato il pannolino (ed eventualmente lo cambiavo pure), mi sedevo accanto a lei che poggiava il muso sulle mie gambe e scrivevo. Scrivevo perchè non sapevo come far passare le ore.
Quando non scrivevo cercavo di rendere presentabile il layout, anche se per un anno e mezzo è stato abbastanza brutto, ma proprio brutto brutto. La prima versione -per la quale ricevetti persino dei complimenti che mi sorge il dubbio non fossero sincerissimi- era inguardabile, la seconda era già un po' migliore, quella definitiva è arrivata soltanto quattro mesi fa.
Poi una notte di quasi un mese dopo, Milly ci ha lasciato e per giorni io mi sono limitata a consumare tutte le mie lacrime pensando che il blog ormai non servisse più a nulla.
Qualcuno mi ha convinto a non mollarlo, erano i tempi in cui i Mercoledì della Ginnastica -cominciati per caso con questo post, il mio primo post che superò i 10.000 lettori- andavano forte (adesso non esiste più quella "rubrica" purtroppo) e gli altri post - quelli che parlavano della mia vita- facevano appassionare e divertire amici e conoscenti. Così ho ripreso a scrivere, raccontando banali episodi di vita quotidiana: la mia vita quotidiana. Ho scoperto che quello che piaceva di questo blog era l'ironia, dopo anni e anni in cui tutti mi hanno sempre ripetuto che io il senso dell'umorismo non so neppure cosa sia. Scusate eh, ma è una grande soddisfazione questa.


Ci ho messo dentro la vita di coppia, il lavoro in televisione, la permanenza a Milano, il mio amore per Roma -la città che ormai è diventata casa mia- e per  Palermo dove sono nata e dove ancora vivono i miei. E non solo.
Ci ho messo dentro amici, alcuni dei quali ormai amici non sono più (e magari chissà, non lo sono mai stati) e amici storici. Ci ho messo dentro persone che mi stavano sulle gonadi, persone che stimavo e stimo e persone a cui voglio bene. Altre persone non sono mai neppure state nominate perché ho preferito -almeno fino ad adesso- tenerle per me, per un motivo o per un altro. 
Tante cose non le ho mai raccontate e probabilmente mai le racconterò.
Ho scritto un post dopo l' altro, a volte ho messo da parte il blog, un po' per mancanza di tempo, un po' per mancanza di voglia.
Ad un certo punto, ci ho messo la faccia, non più solo NonPuòEssereVero, ma Gilda.
Sono arrivate delle richieste di collaborazione che mi hanno resa fiera e orgogliosa di questo blog.
Sono arrivati lettori che non erano solo genitori, Fidanzato e amici. Qualcuno mi ha scritto, qualcuno non so ancora neppure che esista.
Ho conosciuto, grazie a questo blog, persone che non avrei mai conosciuto. Alcune di queste persone oggi vengono annoverate nel club degli amici, quelli con la A maiuscola.
Ho conosciuto decine e decine di persone che hanno anche loro un blog, che vivono a km e km da me e che forse non riuscirò mai ad incontrare di persona, ma che sono presenti. Qualcuno sono riuscita a conoscerlo, a prenderci un caffè o un gelato al Mc Donald's.
Mi hanno anche chiesto un autografo fuori ad un palazzetto che ospitava una gara di ginnastica artistica.
"Ma sei tu quella del blog? Mi fai un autografo?"
"Ehm, no, mi spiace, non so di che blog parli".
(State sereni, non sono io ad essere una star, sono le bimbe che seguono la ginnastica che in alcuni casi chiedono autografi anche ai muri).
C'è stata quella volta in cui sulla mail del lavoro di Fidanzato, un collega ha girato a lui e ad altri un link di un post di questo blog perché questa persona ci teneva che tutti i colleghi lo leggessero. Fidanzato, che è un timido, non l'ha mica detto: "Guardate che è il blog della mia fidanzata".
È successo anche che in qualche messa in onda televisiva hanno parlato di me e di questo blog e qualcuno mi ha poi riferito di aver detto: "Io la conosco".
Oh, lo so, sono stupidaggini, ma mi rendono felice. Si, proprio così: felice.
Ho fatto incazzare un sacco di gente con le mie parole, qualcuno voleva anche querelarmi.
Ho ricevuto sostegno quando attraversavo momenti complicati da perfetti sconosciuti. Qualche volta ho generato ansia, vi ho fatto stare in pensiero per me, ma altre volte vi ho fatto esultare per un mio successo (i successi sono ancora pochi rispetto ai problemi, ma ci accontentiamo). E ne sono stata felice, felicissima.
Sono arrivati, in alcuni casi, i numeri. Post stra letti e stra condivisi che sembrerà una cazzata, ma quando vedi il contatore dei lettori aumentare è tanta roba. Tantissima roba. Credetemi sulla parola.
Mi hanno chiesto di scrivere qualcosa per dei giornali e l'ho fatto. Non chissà che giornali, ma per me era già tanto.
Ultimamente, mi hanno chiesto di potermi intervistare. INTERVISTARE. Mi sono gasata, sarei ipocrita a negarlo.
Che poi forse ora vi sembrerà che me la sto tirando, ma giuro che l'unica cosa che sto tirando sono le somme di questi due anni di blog.
Mi sono anche prefissata un obiettivo che è quello di far crescere le pagine social che ancora fanno un pò cagare non mi soddisfano a pieno. Se ci riuscirò, solo il tempo potrò dirlo.
Sono passati due anni da quel giorno in cui ho deciso di aprire questo blog e se mi ha già regalato tutte queste cose meravigliose, chissà cosa potrà riservarmi il futuro. 
Buon compleanno blog e grazie di tutto. 
Grazie a voi che mi leggete, che ci siete.
Grazie a chi ha contribuito a rendere NonPuòEssereVero bello com'è. E si, è proprio vero che ogni scarrafone è bello a mamma sua. Questo blog per me è uno scarraffone molto molto bello.


Nb. Avete presente quelle parole o frasi che vedete sottolineate in questo post? Ecco, cliccandoci sopra vi si apriranno i link ai post che sono stata nominati.
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mercoledì 18 gennaio 2017

Bastava ascoltare

Ho chiesto brioche e cappuccino al bar.
Sono una che si adatta e se il cornetto viene chiamato brioche, io chiedo una brioche.
Oh certo, dentro di me resta un cornetto, mi pare ovvio.


Ho chiesto, per favore, mentre pagavo,  di avere prima la brioche perchè preferisco prima mangiare e poi bere. 
Sono stata ignorata.
Il mio cappuccino è stato preparato e quando era pronto ho chiesto educatamente se potevo avere prima la brioche, per la seconda volta.
Una donna di circa cinquant'anni mi ha mandato a cagare, lei il cappuccino l'aveva fatto e dovevo berlo subito.
"Guardi, avevo chiesto prima la brioche".
E' una cazzata e io ne sono pienamente consapevole. Sono abituata così. non amo bere il cappuccino e poi mangiare qualcosa, faccio così da anni. Mai una volta -che io ricordi- ho fatto in modo diverso. E' un'abitudine.
"E che ci faccio col cappuccino se non lo bevi subito?"
E' intervenuto un collega dicendo che effettivamente avevo chiesto educatamente di avere prima la brioche e che lui non mi aveva dato retta.
Mi ha dato la brioche. 
La barista, quella cinquantenne, bofonchiava,che noi giovani siamo maleducati perchè se lei aveva preparato il cappuccino, mica potevo farglielo buttare e che dovevo adattarmi.
Eppure avevo chiesto una cosa per due volte, educatamente. Di avere prima la brioche e poi il cappuccino, tutto qui. 
Non ho detto di buttare il cappuccino, piuttosto magari di scaldarlo dopo. 
Dico per favore, grazie, prego. Sorrido, anche quando vorrei uccidere tutti.
Lei bofonchiava e io ho vomitato fuori una frase che a quell'ora, di norma, non avrei detto: "Signora, bastava ascoltarmi, io ho chiesto educatamente".
Ho cercato su TripAdvisor il bar in questione e ho trovato solo recensioni negative.
"Personale scortese e maleducato" recitavano la maggior parte.
Eppure il barista, l'uomo, era educato e ha cercato di frenare la sua collega.
E si è preso anche lui le recensioni negative. 
Magari è stato scortese anche lui qualche volta, ma con me è stato gentile.
Ho pensato e ripensato alla mia frase. "Bastava ascoltare".
Tante volte non sono stata ascoltata e tante volte non ho ascoltato.
Alcune volte ho dimenticato, anche se avevo ascoltato. E probabilmente, quello che ho detto è stato dimenticato.
E mi sono chiesta cosa cambierebbe se tutti ascoltassimo gli altri quando ci chiedono una cosa, quando ci consigliano qualcosa o semplicemente quando rispondono ad una nostra domanda della quale, in realtà, non ci interessa la risposta.
Ho cercato la risposta a questa domanda per un pò, ma non l'ho trovata.
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lunedì 16 gennaio 2017

Quindicenni

Le ho osservate a lungo, sui mezzi pubblici.
Le ho osservate e ho ascoltato i loro discorsi. Mi sono sentita un po' matta, magari qualcuno avrà anche pensato fossi un soggetto pericoloso. Eppure io ho continuato ad osservare perché sono curiosa e le quindicenni di oggi mi incuriosiscono.
Io avevo 15 anni nel 2001, sedici anni fa. Alla fine degli anni '90, quelli delle Spice Girls, dei Backstreet Boys, di Cioè e delle magliette Onyx con le bamboline.
Dicono che tra una generazione e l'altra passino quindici anni, quindi loro sono la nuova generazione. Loro, le quindicenni di oggi.
Sui mezzi, dirette a scuola. Io non andavo a scuola con i mezzi pubblici, andavo con mia madre o in motorino, il mio meraviglioso Scarabeo 50 abbandonato a 18 anni e mezzo, in favore di un'Alfa Romeo 146. Mai errore fu più grande.
I capelli perfettamente piastrati. So riconoscere un capello piastrato da uno naturalmente liscio, io che convivo da sempre con la mia riccitudine e ho speso più soldi in piastre che in automobili. 
A 15 anni non avevo una piastra che io ricordi e se ce l'avevo di sicuro non me la passavo la mattina prima di andare a scuola. 
Visi perfettamente truccati. Occhi neri neri, la linea della matita tracciata perfettamente, mascara grondante. Fondotinta e fard. I rossetti matte, viola o rossi.
Se io avessi messo un rossetto matte viola per andare a scuola, mia madre mi avrebbe presa a calci in culo per tutta la via che separava casa mia dal liceo linguistico di Via Fattori. Calci in culo ben piazzati, non credo le sarebbe importato granché del gatto che non potessi sedermi.
Non potevo nemmeno uscire la sera truccata così. Non che potessi uscire chissà quanto la sera, ma questa è un'altra storia. Non di certo durante la settimana, in ogni caso, al massimo il sabato sera. Struccata.
Parka come se non esistesse un domani, quasi tutti dello stesso verde militare, un pò di nero, un pò di rosso. Ai miei tempi si usava il Belstaff che io -per la cronaca- non avevo. Credo comunque che nella mia classe avessimo tutti giubbotti diversi.
Le sciarpone avvolte intorno al giubbotto invece che intorno al collo, forse si usa così. Io la sciarpa non la portavo, tiravo fuori sciarpone, cappelli e guanti solo in occasione dei viaggi d'istruzione in paesi freddi e le mie sciarpe erano state tutte fatte a mano da mia nonna. Le conservo ancora.
Tutte lo stesso zaino North Face che a me fa pensare ad uno zaino da trekking. E comunque, con il rossetto matte non ci si può abbinare sto coso brutto. Io  a scuola ci andavo con la borsa Kookai o, al massimo, con lo zaino Eastpak. La Kookai credo che nel frattempo sia fallita o comunque io in Italia non l'ho mai più vista.
Le caviglie scoperte, i jeans lunghi fin sopra la caviglia, modello skinny, strappati, le calze corte. LE CAVIGLIE SCOPERTE.
Io usavo i jeans a zampa di elefante, i pantaloni a campana, roba molto brutta. Forse meglio le caviglie scoperte, anche se a trent'anni so che lasciare parti del corpo esposte alle intemperie  in inverno prima o poi si paga. Eccome se si paga. Parola di una cresciuta quando le caviglie venivano coperte, ma la pancia (e i reni) andava scoperta, ma non a scuola, altrimenti erano anche lì calci in culo.
Le Converse. Non so se avrei avuto il fegato di indossare le Converse di tela a Milano d'inverno neppure a quindici anni.
Non ricordo che scarpe si usavano quando andavo a scuola io, Hogan a parte. Forse le Camper o le New Balance.
Le ho viste fumare, fuori dalla metro.
Ai miei tempi, si fumava nel cortile di scuola, le sigarette costavano poco meno di 5.000£, non so se esisteva già il tabacco da rollare.
Le ho viste armeggiare con il cellulare, parlare tra di loro di messaggi Whatsapp e di notifiche Facebook. Noi non avevamo né Whatsapp né Facebook, ma c'erano gli squilli che valevano molto più di un mi piace e i messaggi che si pagavano. E se qualcuno ti mandava un messaggio pur pagandolo era tanta roba.
Ho ascoltato i loro discorsi, inevitabile in un autobus o una metropolitana affollata.
"Mi sono assunta le mie responsabilità, gli ho detto che sto attraversando un periodo molto difficile"
"Ormai dovrebbe essere maturo, ha sedici anni, mica è più un ragazzino"
"Quella stronza mi ha messo cinque, anche se avevo quattro allo scritto e sette all'orale"
"Entro a seconda ora, non ho studiato per l'interrogazione"
"Se arriviamo un po' prima, magari becco il (segue soprannome)".
"Quando compio 18 anni, sarà tutto diverso"


Le ho guardate, le ho osservate. Non sono riuscita a farne a meno.
E, alla fine, anche se noi non avevamo le caviglie scoperte, nè eravamo truccate, nè avevamo lo zaino Nort Face ho pensato che è tutto esattamente uguale a sedici anni fa.
Anche io credevo che un  sedicenne anni fosse maturo, non parliamo poi dei diciottenni.
Anche io entravo a seconda ora, anche io insultavo le mie professoresse.
Anche io sono arrivata un pò prima a scuola perchè mi piaceva qualcuno e speravo di incontrarlo.
Anche io parlavo per ore con le mie amiche di uno squillo piuttosto che di un messaggio.
Anche io ero convinta di attraversare periodi molto difficili. Pensavo che certe tragedie non sarei mai riuscita a superarle.
Anche noi eravamo vestite tutte uguali o quasi.
Anche noi credevamo che l'amicizia e l'amore di quel periodo fossero per sempre. In alcuni casi, è stato davvero così.
Credevamo tante cose e ci sentivamo invincibili. E anche noi eravamo convinti che a 18 anni sarebbe cambiato il mondo.
Siamo uguali a loro. Ecco tutto.


La foto del post è di Samira El Bouchtaoui.

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venerdì 13 gennaio 2017

Orario d'ufficio

A me hanno sempre raccontato la storia dei turni brutti e cattivi.
Chiaramente questa storia mi è stata raccontata da chi lavora dal lunedì al venerdì,  dalle 9 alle 18, sabati e festivi esclusi e da chi di lavorare la domenica proprio non ne vuole sapere.
Io ho sempre elogiato il lavoro su turni, con una predilezione per i turni pomeridiani/serali/notturni. Ma roba che a me i colleghi cedevano i loro turni serali/notturni perché sapevano che li amavo particolarmente. In cambio, donavo loro odiosi turni di mattina.
La domenica ho sempre lavorato volentieri, idem per le feste comandate, tanto a meno che non abbiate un qualche collega che per tutte le feste è disgraziatamente malato, ci si organizza: oggi a me, domani a te.
Comunque, dallo scorso lunedì sono entrata anche io nel regime del lavoro ad orari d'ufficio che tutti hanno sempre elogiato.
È vero che è un tantino diverso perché ho la reperibilità, farò diverse trasferte all'estero, potrò fare home working e, talvolta, gli orari saranno anche serali (ma non notturni), però è stato un grosso cambiamento. Molto grosso. Facciamo enorme va. Enormissimo.
Praticamente dal lunedì al venerdì, si è ostaggio del lavoro H24.  Almeno questa è la mia sensazione.
Facendo i turni, se lavoravo la mattina mi dovevo svegliare molto presto, ma dopo pranzo ero a casa.
Se lavoravo il pomeriggio, avevo mattinata e parte del pomeriggio libero. Certo ero a lavoro fino a mezzanotte o alle 2 e non potevo andare, che ne so, a cena fuori, ma amen.
Se lavoravo la notte, tornavo a casa, dormivo in mattinata e avevo l'intero pomeriggio e tutta la sera a mia disposizione.
I turni erano spesso organizzati di modo da avere quanto più tempo libero possibile: magari finivi di lavorare alle 8 del venerdì mattina e riprendevi alle 17.30 del lunedì pomeriggio, quasi quattro giorni a casa che però di fatto erano due, visto che lavoravi sia il venerdì che il lunedì.
Comunque, non importa: se mi mettessi a spiegare tutti i meccanismi per i quali lavoravo 40 ore settimanali -magari ad orari un po' alternativi- ma sembrava che fossi sempre libera, non ne usciremmo più.
Dicevo: sono entrata anche io nel tunnel regime dell'orario d'ufficio.
Il lavoro mi piace molto, è estremamente tecnico e complesso, ma piano piano tutti i nodi verranno al pettine. Il broadcasting è così: sembra cattivo, ma in fondo non lo è.
Da lunedì a venerdì 9-18, quindi. L'ho già detto, vero?
Facciamo quindi una breve analisi: bisogna svegliarsi molto presto perché è l'orario in cui esce la maggior parte delle persone e c'è traffico. In ogni caso, io al momento vado a lavoro con i mezzi perché è impossibile raggiungere il posto dove devo andare con l'automobile.
Servirebbe un motorino, ma magari a -2°, con il cielo grigio, il nevischio, i lastroni di ghiaccio per strada e sui marciapiedi ed un'umidità grazie alla quale la temperatura percepita è di -15°, ne faccio anche a meno. Sono vecchia dentro, mi sa.
C'è la gente. Troppa gente. Alla 5 o alle 6 del mattino non c'è tutta questa gente per strada. Neppure a mezzanotte. E la gente, al mattino, è brutta e cattiva, specialmente quella che non si lava.
Anche al ritorno, c'è troppa gente. Ed è brutta e cattiva perché è un impedimento al mio ritorno a casa: chi cammina troppo lentamente, chi ti viene addosso perché invece va troppo velocemente, chi ti guarda dalla testa ai piedi e tu sei consapevole di essere un'occhiaia che cammina, eccetera eccetera. Che stia diventando agorafobica?
Si è fuori casa praticamente dodici ore perché tra gli spostamenti e le nove ore (otto in realtà + una di pausa) di lavoro, quello è, si arriva a casa ad ora di cena (o quasi, ma ci siamo capiti), si cucina, si mangia e ciao, finita la giornata. FINITA.
Poi certo il sabato e la domenica si resta a casa e si ha, oltre alla stanchezza della settimana, tutto quello che non si è riusciti a fare durante la settimana, da fare.
E poi io ho sempre amato il lunedì. Non voglio diventare come quelli che il lunedì lo odiano. Io voglio continuare ad amarlo il lunedì. Suona così bene il nome lunedì.
Me l'avevano spacciato per una cosa un po' più figa sto orario di ufficio.
Se non fosse che che mi piace molto il lavoro, l'azienda e il fatto di avere -per la prima volta- una scrivania tutta mia dove posso mettere quello che voglio, l'avrei presa maluccio.
E ora posso dirvelo: mi avete imbrogliata per anni. I turni sono belli e il 9-18 è brutto, non il contrario.


La scrivania -per la cronaca- non è ancora completamente arredata.
Essendo la prima per me, sto impiegando più tempo a scegliere un portapenne da scrivania che l'intero arredamento di casa mia (e, credetemi, di tempo ce ne abbiamo messo).
Però l'angoletto mi pare sia venuto bene, c'è il giusto equilibrio di rosa e paillettes.

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domenica 8 gennaio 2017

La prima sfiga dell'anno

Che vado a Milano l'avete capito tutti.
Quello che sfugge ai più è che vado a Milano, ma poi parto per Stoccolma dove resterò un pochino. 
Contenete i gridolini di gioia che a Stoccolma in questo periodo fa buio alle 14, ci sono sei ore di luce se va bene e fa un freddo che altro che la neve in Sicilia.
Io comunque si, sono entusiasta: andare a Stoccolma per lavoro è tanta roba, vedere come lavorano lì, imparare da chi ne sa sicuramente più di me è una cosa che mi rende orgogliosa. Di cosa ancora non lo so, ma ve lo saprò dire.
Comunque, io non compro vestiti, nel senso che il 90% dei miei vestiti li compra mia madre, altrimenti potrei serenamente andare in giro con i jeans strappati e le Converse per tutto l'anno. Ogni tanto, se mi serve qualcosa, vado, pago e serenamente mi provo il tutto a casa. Ma mi deve servire eh, che proprio non ne posso fare a meno. E possibilmente deve essere qualcosa  a pois che se scelgo io, i pois non possono mancare.
L'unica mania sono le borse, quello è un disturbo ossessivo compulsivo che non riguarda solo me, ma tutta la famiglia visto che abbiamo investito -ormai un paio d'anni fa, se non di più- in una meravigliosa parete attrezzata da salotto atta a contenere le mie borse che sfiorano il centinaio. E chiaramente uso sempre le stesse, ma sai mai. 
Vi starete giustamente chiedendo cosa c' entrano i vestiti con Stoccolma.
Non avevo vestiti adatti per il freddo svedese, quindi una volta avuta la lieta novella del nuovo lavoro con trasferta annessa, mi sono precipitata a comprare maglioni pesanti e altra roba che pare fosse necessaria per sopravvivere alle temperature sotto lo zero.
Precipitata è una parola grossa, visto che da una parte c'era mia madre al telefono che mi intimava di andare in Via del Corso a comprare vestiti, dall'altra Fidanzato che mi ha dovuta letteralmente trascinare. Entrambi all'urlo di "pago io". 
Ad un certo punto, ho trovato un maglione caldo e bellissimo, adatto allo scopo. L'ho persino provato, amandolo da subito. E visto che loro sostenevano che un maglione non era sufficiente, mi sono rivolta al simpatico signore e con nonchalanche  ho domandato: "Ma questo lo avete in altri colori?".
Io so che lui ha pensato che volessi magari vagliare altre possibilità di colore, visto che quello provato era color carta da zucchero (che poi mi dovete spiegare come si può chiamare un colore carta da zucchero). Ha tirato fuori altri colore e io ho affermato: "Li prendo tutti!!"
Fidanzato mi guardava esterrefatto: "Ma tutti uguali?"
"Non sono mica uguali, sono di colori diversi".
Mia madre al telefono mi chiedeva: "Ma li hai presi tutti uguali sul serio?"
"No madre, non sono uguali, sono di colore diverso".
Comunque, alla fine sono tornata con un bottino di roba calda e per me la questione era risolta.
Ho pure comprato tante belle magliette da mettere sotto ai maglioni -tutte uguali, ma di colore diverso anche quelle- ed ero felice e soddisfatta.
Dopo cinque giorni si è aggiunto il tormentone: "Compra anche dei pantaloni".
"Perchè? i miei jeans strappati non vanno bene?"
A quanto pare no. Io ci ho provato, ma non li ho trovati dei pantaloni. Forse non li ho neppure cercati bene, ma ho comunque informato l'intera famiglia che sono munita di jeans non strappati e pantaloni pesanti.
Che poi, detta così sembra che ho l'armadio vuoto, ma in realtà è pieno di vestiti. Sta scoppiando. 
Vestiti che però non erano abbastanza pesanti.
L'unica certezza che avevo era quella di non aver bisogno di un giubbotto pesante perchè quello ce l'ho e me lo sono comprata spontaneamente lo scorso inverno. Nero, caldo, lungo fino alle ginocchia, bellissimo. 
Solo che ecco, venerdì sera si è rotta la cerniera. La prima sfiga dell'anno. Mi è preso un pò lo sconforto in effetti, il mio giubbotto tanto caldo adatto a Stoccolma.
Fidanzato mi ha cazziato, mia madre si è fatta prendere dalla sindrome della figlia che morirà assiderata.
"La faccio aggiustare". Col piffero che ho trovato qualcuno che sabato 7 Gennaio mi cambiasse la cerniera del piumino nero, caldo, lungo fino alle ginocchia, eccetera eccetera.
Ho anche riesumato un giubbotto pesante e caldo -ma nemmeno poi tanto bello- comprato nel lontano 2003 e usato solo quell'inverno al freddo e al gelo di Montegiorgio che, se non sapete dov'è, tranquilli, non fa niente. Solo che era rovinato completamente, inutilizzabile.
L'intera famiglia si è quindi riunita in un summit per valutare tutti i miei giubbotti invernali stabilendo che non avevo nulla di abbastanza caldo per andare a Stoccolma.
"Va beh, ma che sarà mai, ho quello corto nero col pelo che è caldissimo"
"E' troppo corto e prendi freddo"
"Ho il cappotto beige, quello tanto bello" (comprato anche lui dalla genitrice)
"E' leggero"
Mia madre mi ha intimato di andare a comprare un giubbotto caldo, lungo, pesante. "Pago io" ha detto.
Poi ha chiamato mio padre: "Sei la nostra unica figlia, ci pensiamo noi, ma compralo".
Si è unito il Fidanzato: "Vai a cercare un giubbotto, pago io".
Il cane ha abbaiato qualcosa, probabilmente mi ha offerto i suoi croccantini da barattare con un giubbotto. Non ho avuto cuore di spiegargli che nei negozi vogliono soldi, non croccantini.
Ora, chiariamo una cosa: io al centro commerciale il primo sabato di saldi non ci metto piede.
Mia madre si è giocata la carta di Via del Corso, ma ho ribadito che io non ci andavo manco dopo morta con i mezzi, una valigia (che poi, non è mica solo una) da fare e ancora una serie di cose da sistemare.
"Vado in Viale Europa". Da sola. Non ho trovato niente che fosse di mio gradimento, sono tornata a casa e ho comunicato che su, ci avrei pensato a Milano tanto mica non ho niente da mettere.
"Non morirò congelata, state tranquilli".
Credo siano passate due ore. Forse meno.
Sono arrivate due foto di un piumino esattamente identico a come avevo descritto il mio piumino ideale a mia madre. Gliel'avevo descritto su richiesta, eh. Non è che mi metto a descrivere piumini a caso io.
"Bello mamma, mi piace un sacco, però non lo volevo nero, magari un colore chiaro".
In effetti, mi aveva chiesto di misurarmi le spalle e la circonferenza del seno, però che ne so, ultimamente sono dimagrita, magari voleva solo sapere di quanto in centimetri invece che in chili.
Nel frattempo, sono giunte le foto dello stesso piumino col pelo di mammut scongelato dall'Era Glaciale (Manny si, proprio lui). In effetti, avevo anche detto che volevo una roba pelosa.


"Basta che non sia un animale vero" avevo sottolineato. 
Io però lo avevo detto così. A domanda rispondo, sono educata.
Saranno passati altri dieci minuti: "Dammi un indirizzo a Milano a cui spedire il giubbotto"
Che loro lo sanno che io non sarei mai andata a comprarlo sto benedetto giubbotto.
Mia suocera nel frattempo si è offerta di sistemare la cerniera di quello nero. "Ci dai un indirizzo e te lo spediamo sistemato".
Quindi adesso ho un super mega giubbotto peloso caldo, caldissimo, fighissimo. 
E questi sono i miei genitori che sanno di avere una figlia disastrosa. E li amo anche per questo.
Prima sfiga dell'anno risolta in due ore. 
E vissero tutti felici e contenti.
E io vado a Stoccolma. 

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venerdì 6 gennaio 2017

Milano reloading

In un anno e tre mesi abbondanti, non ho mai sentito la mancanza di Milano. Mai, neppure per un attimo. Sono stata coerente con quello che avevo detto qui. Molto coerente.
Mai una volta che mi sia venuto in mente di tornarci a Milano, nonostante ci siano dei negozi che mi piacevano tanto, nonostante ci siano delle amiche che sono praticamente sorelle.
L'unica volta che in questo anno e tre mesi ho messo piede in Lombardia è stato per andare a Brescia, ma Brescia è un'altra storia.
A Milano, per tutto questo tempo, ho portato rancore. Rancore e disprezzo. 
A Milano, il 29 Dicembre ci sono tornata con un trolley pieno di speranze. Tanto sono meno di quarantotto ore. QUARANTOTTO. Ce la potevo fare.
"Ancora tu? Ma non dovevamo vederci più?" ho scritto quando ti ho vista di nuovo.
Manco fossi un ex ragazzo, ma in fondo io un ex nel senso stretto del termine manco ce l'ho, quindi che ne posso sapere.
Stavano per scadere le quarantotto ore, quando un angelo -perché solo così posso definirlo- mi ha detto: "Sai, quando ho saputo da dove venivi, ho avuto paura". 
Non si riferiva a Roma. Neppure a Palermo. Non stava proprio parlando di provenienza geografica, ma lavorativa. Diciamo così.
Ed è stato lì che ho capito. Mi sono illuminata.
Un anno e tre mesi di incubi ripensando a quel posto che quasi mi aveva portato via l'amore per la televisione. Un anno e tre mesi in cui Lui mi ha ripetuto di cambiare strada.
Un anno e tre mesi in cui non ne parlavo volentieri. Mai. 
Non parlavo volentieri della parentesi milanese. E poi ho capito perché. 
É bastata una frase. La nostra fama ci precede, nel mio caso mi ha spesso preceduta quella di un reparto che faceva acqua da tutte le parti. Adesso ho capito perché nessuno parlava bene di noi.
Eppure nemmeno io l'ho mai amato quel posto, non c'era nessun noi, ma questo gli altri non lo sapevano. E io pensavo che a farmi soffrire era Milano senza se e senza ma, ma Milano non è solo quello. Adesso lo so.
E allora scusami Milano, davvero. Ti chiedo scusa.
Non eri tu il problema. 
Non ho mai amato le minestre riscaldate, se chiudo è per sempre. Sono fatta così.
Ma a te Milano ho deciso di dare una seconda possibilità, dalla anche tu a me se puoi.
Provaci, anche se sono stata una gran stronza con te. Ho parlato male di te e non era colpa tua, ma non lo sapevo.
Ci abbiamo pensato a lungo se era il caso. Ho deciso di si, Lui non era d'accordo fino in fondo, ma non mi dice mai di no.
Siamo pronte a ricominciare, giusto Milano? Senza rancore, giusto?
Io non ce l'ho con te e tu non ce l'hai con me.
Poi eh, sei un pò fredda e nebbiosa, ma di questo posso farmene una ragione.
Non accogliermi a braccia conserte come canta Ligabue, accoglimi a braccia aperte che qua abbiamo messo a soqquadro una famiglia intera per te, un pochino in fondo ce lo meritiamo.


Certo, però la mela non l'ho capita.
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giovedì 5 gennaio 2017

Vi racconto un'emozione: RTT 2020

In questi mesi di silenzio -almeno per quanto riguarda la ginnastica artistica- sappiate che non ho smesso di amarla, non ho smesso di seguirla, non ho smesso di essere spettatrice di quello che, secondo me, è lo sport più bello del mondo.
La fine di un quadriennio olimpico è sempre un periodo particolare, sia per chi questo mondo c'è dentro dalla testa ai piedi, sia per chi -come me- questo mondo lo guarda da fuori, sebbene da un punto di visto privilegiato rispetto ad altri.
Ieri pomeriggio, ho visto la prima puntata di FATE RTT 2020.
RTT sta per Road to Tokyo e non è solo il nome di un web serie sulle nostre azzurrine, ma un progetto per le nostre giovani ginnaste che si preparano in vista delle Olimpiadi di Tokyo.
Tra l'altro, io piango anche pensando che a Tokyio vorrei esserci, per loro, e per la mia ginnasta saltellante.


Comunque dicevo, ieri ho visto la prima puntata e mi sono già scese le prime lacrime.
Questo progetto l'ho visto crescere, prendere forma, ho visto il lavoro che c'è dietro, ho avuto la fortuna di avere piccole news in anteprima e, che dire, vederlo lì, sullo schermo, mi ha emozionata.
Ho visto amici lavorarci senza mai fermarsi, ho visto l'entusiasmo che ci hanno messo. L'ho visto con i miei occhi.
Ma non è solo questo. 
Le piccoline -che ormai non è che siano più così tanto piccoline- le ho in parte viste crescere, le ho abbracciate, ho esultato per un loro successo e mi si è stretto il cuore quando non tutto è andato come doveva andare. Le ho viste allenarsi, le ho viste chine sui libri, le ho viste ridere e scherzare, camminare con le stampelle, cercare di riprendersi da un infortunio.


Sono piccole, ma coraggiose. Io non ero mica così a quell'età.
Immaginate a dodici anni di dovervi trasferire lontano da casa, di non poter più vivere con mamma e papà, fare scuola al pomeriggio, non avere compagni di classe.


Ieri ho visto sullo schermo genitori piangere perchè non deve essere stato facile per loro. Anzi, diciamo pure che non è stato facile senza se e senza ma.
Questi genitori sono gli stessi che ho visto ad ogni gara, sugli spalti. Genitori che pur essendo lontani, devono essere presenti.
E pensare che io penso sempre di avere un Fidanzato meraviglioso accanto perchè ha sempre appoggiato le mie trasferte, aspettandomi a casa, mentre di notte facevo su e giù per l'Italia per non perdermi nessuna gara.
Cominciare così piccole ad inseguire un sogno, un sogno il cui pensiero non ha mai sfiorato molti di noi. Un sogno che vuol dire sacrifici, non solo per le bimbe (che so già che la prossima volta che le vedrò mi insulteranno perchè continuo a chiamarle bimbe), ma anche per le loro famiglie.
Scusate eh, ma mi sono emozionata tantissimo a vedere tutto questo sullo schermo. E ancora mancano un bel pò di puntate, dovrò fare scorta di fazzoletti di carta.
La ginnastica è anche questo, vorrei riuscire a trasmettervi anche solo alcune delle emozioni che da a me. Vorrei davvero riuscirci.
La ginnastica è piangere quando vedi qualcuno a cui vuoi bene riuscire a realizzare un progetto in cui ha investito tempo e fatica, mettendoci l'anima.
E' piangere quando vedi persone che conosci inseguire questo famoso sogno e, per realizzarlo, aggiungere un mattoncino ogni giorno. Mattoncino dopo mattoncino si costruirà un castello.
Un castello che bisogna stare attenti a non distruggere.


La ginnastica è amicizia, vorrei potervi raccontare in poche righe quanti amici veri e sinceri mi ha regalato, in ogni parte d'Italia, ma non ci riuscirei. 
E' non vedersi per mesi e pensare che sia passato solo un giorno dall'ultima volta quando finalmente si riesce a riabbracciarsi.
E' tante cose. Tantissime. Non saprei neppure spiegarvele tutte.
E' una cosa che amo. Un amore profondo, che più passa il tempo, più cresce.
E' le mie lacrime di ieri. Sono anni che piango, a volte di gioia, a volte di disperazione.
E una cosa posso dirla: spero di non smettere mai di piangere, spero di viverle ancora per molto tempo queste emozioni.


Le foto del post sono di Ginnastica Artistica Italiana che ha realizzato il progetto FATE RTT 2020. Grazie a Silvia per avermele girate.
Se volete saperne di più, qui trovate la prima puntata.

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mercoledì 4 gennaio 2017

Storia di una copertina

Il processo di cambiamento di NonPuòEssereVero era iniziato a Settembre, qui avevo raccontato la creazione della nuova grafica e tutto il lavoro che c'era stato dietro.
Mancava la copertina. Per tre mesi ce n'è stata una provvisoria che però era triste e vuota.
Volevo una copertina del blog che rappresentasse me e quello che sono, avevo in mente qualcosa, ma io non so disegnare, quindi mi sono affidata a chi era in grado di creare qualcosa mettendo prima su carta e poi in digitale le  mie idee.
Ci sono state prove, disegni, cambiamenti. Oggi è online la copertina definitiva.
Loredana, che è palermitana come me, mi ha ascoltata e ha cercato di accontentarmi, nonostante non sia sempre facile comprendere il gildese che è una lingua a se. Io spiego nella mia lingua, poi bisogna tradurre il tutto in italiano. E non sempre è facile.
Quando ho mostrato la prima bozza  ad Arianna mi ha detto: "Ci hai messo dentro tutta la tua vita". 
Ed è stato in quel momento che ho capito di essere riuscita nel mio intento, anche se c'erano ancora delle cose da modificare.
Le parole non sono bastate per spiegare a Loredana cosa volevo, mi sono servite delle foto, alcune non troppo recenti.

Ci volevo la ginnastica artistica, che è il mio grande amore. 
Quando l'ho detto a Loredana, mi ha chiesto se poteva andare bene un cavallo.
"No, il cavallo con maniglie è un attrezzo della maschile" le ho detto. (Scusate amici ginnasti).
Almeno non l'ha chiamata cavallina, ma io so che la ginnastica artistica è ostica ai più.
"Ci vorrei una trave"
Nella prima bozza, lei mi aveva dato troppa fiducia. 


Lei non mi conosce bene, ma ecco, chi mi conosce sa che una cosa del genere non poteva essere credibile. Io che faccio una cosa del genere? No, no, non va bene.
Ed è stato così che mi sono ricordata di questa foto, che mi ha scattato Marco a Jesolo poco meno di un anno fa. Ah, se le foto potessero parlare.


Il palazzetto era vuoto, fatta eccezione per qualche amico fotografo. Giustamente, quando si sono resi conto di quello che stavo per fare mi hanno puntato addosso obiettivi e cellulari per immortalare al meglio la scena. Esiste un video -che non vi farò vedere- in cui ripeto: "Ho paura, soffro di vertigini, è troppo alto, ma come ci si fa a mettere in piedi su sta roba alta a e stretta?".
Un applauso a Marco che, non si sa come, nonostante non stessi ferma manco a pagarmi oro, è riuscito a scattare una foto decente e a fuoco.
La trave è comunque il mio attrezzo preferito. Da guardare ovviamente.
Poi volevo essere vestita di giallo che è il mio colore preferito. E a quel punto ho tirato fuori dal cilindro quest'altra foto che mi rappresenta a pieno


La sciarpa gialla non l'abbiamo messa perchè, come ha detto Loredana, ad Agosto magari sarebbe risultata un tantino fuori luogo e visto che non è che potevamo fare una copertina per ogni stagione, ciao sciarpa.
Sugli occhiali giganti e baroccheggianti -il modello si chiama Baroque sul serio, eh- invece non potevo scendere a compromessi visto che li porto anche se nevica.
Anche con i capelli direi che ci abbiamo preso, anche se ecco, io di solito non mi pettino, ma pareva brutto mettere una Gilda spettinata, no?

Ci volevo la televisione, ma non la tv che sta in salotto, ma la mia televisione, quella della messa in onda. Vorrei che tutti sapessero quanto lavoro c'è dietro quello che vedete ogni giorno.
E dal cilindro ho tirato fuori questa foto


Una messa in onda è un luogo estremamente incasinato, pieno di macchinari e monitor, quindi bisogna scegliere.
Un quadri split poteva essere l'idea giusta, ma io ci volevo le barre. Che poi eh, avere le barre in onda è una tragedia. Alla fine siamo arrivate alla soluzione giusta che dovrebbe rappresentare in modo chiaro quello che è la mia vita in mezzo ai monitor.

E poi ci volevo Fuffi che è protagonista di tanti post. Solo che Fuffi non bastava, in fondo questo blog esiste grazie a Milly, quindi ci andava messa anche lei.
Milly sdraiata, la sua posizione preferita, e Fuffi seduto che mettersi seduto è l'unica cosa che siamo riusciti a insegnargli in quattro anni e mezzo. Che poi non sempre si metta seduto in posti idonei al suo essere un cane, è un'altra storia.




Qualcuno mi ha detto: "Ma Milly non c'è più". E' vero, Milly non c'è più, ma questo blog è il suo blog, nato nelle notti in cui non dormivo per stare accanto a lei. E comunque, io non mi sono mai davvero ripresa dalla sua morte, mi manca ancora come il primo giorno, me la immagino sdraiata sotto ad un albero mentre tanti cani intorno a lei corrono. A lei, per essere felice, bastava un divano. E tanta roba da mangiare. 
Me la immagino anche ringhiare ai cani che provano a giocare con lei, non era molto socievole. Lei amava solo me e no, non sto scherzando. 
"Mi raccomando, i pois di Fuffi, lui è a pois e i suoi pois si devono vedere". Nella prima bozza, Fuffi non era a pois. 
Quando finalmente la copertina era finita, c'erano ancora dei problemi con le dimensioni, piccoli problemi eh, niente di serio, risolti in due ore.
Ed eccola qui, alla fine


E si, prima di chiudere, rispondo alla domanda che molti già mi hanno fatto: "Perchè non c'è Fidanzato nella copertina?"
Io e Lui siamo poli opposti, lui è una persona molto riservata, molto silenziosa, parla poco e non ama stare al centro dell'attenzione. La sua riservatezza è anche il motivo per il quale, prima di oggi, non avevo mai pubblicato una sua foto nel blog.
E poi eh, c'erano già tanti elementi nel disegno, bisognava fare una scelta.

Grazie Loredana per essermi stata dietro, per non aver fatto mai una piega alle modifiche e per avere centrato in pieno quello che volevo.
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martedì 3 gennaio 2017

Muffin e home working

Questi sono giorni particolari perché sto sperimentando l'emozione di lavorare da casa.
Si, so cosa state pensando: "Ma guarda questa che può anche permettersi di lavorare da casa appena assunta". 
Quando ho detto -qui, per chi se lo fosse perso- che il giorno in cui mi hanno comunicato che mi assumevano era il giorno più bello della mia vita non scherzavo, eh. Avevo dei validissimi motivi per dirlo, ma mica ve li svelo tutti insieme questi motivi, eh.
L'unica fatica di lavorare da casa consiste nel doversi svegliare presto quando l'altra metà della mela è in ferie e può dormire fino a tardi, fare colazione, mettersi davanti al pc e mantenere la concentrazione, nonostante un cane impiccione che vuole vedere a tutti i costi cosa sta facendo la mamma umana cercando di passeggiare sulla tastiera del pc. Probabilmente, nella vita precedente, il nano a pois era un gatto.
In ogni caso, sto riuscendo ad organizzarmi abbastanza bene, nonostante le incursioni canine. E comunque, è solo per pochi giorni.
Sto cercando di godermi il Fidanzato -in vista del periodo in cui lo vedrò solo su Skype- e il cane che -ci abbiamo già provato con mia madre- di Skype non ne vuole sapere.
Quando ero ragazzina, mio padre -e noi con lui- passava le estati a Roma per lavoro e nei miei ricordi c'è sempre stato il Luneur, un parco giochi che trovavo fighissimo e che, ad un certo punto, ha chiuso.
Dopo anni e anni, un paio di mesi fa ha riaperto i battenti e io volevo andarci. Roba che ho rotto le palle in modo molesto per settimane.
Oggi ho completato il mio piano di lavoro giornaliero in tempi relativamente brevi (sette ore sono tempi relativamente brevi, vero?) e Lui mi ha portata al Luneur, d'altronde è romano e ci è cresciuto pure lui dentro a quel parco giochi. E poi è anche sotto casa nostra, cosa volere di più?
Ho visto la ruota muoversi da lontano e mi sono emozionata, mi è quasi scesa la lacrimuccia.


Solo che arrivati alla cassa, una simpatica hostess ci ha informati che senza bambini non si entra. 
I giochi adesso sono solo per bimbi fino a 12 anni -i miei due nipoti, uno diecenne e uno novenne probabilmente li schiferebbero quei giochi, ma tant'è- ma se non hai bambini al seguito non puoi entrare manco per fare un giro. E nemmeno salire sulla ruota panoramica.
Ci siamo guardati intorno, non c'erano bambini da rapire e spacciare per figli nostri, quindi mi sono dovuta rassegnare. 
"Amò, ma un ragazzino non lo troviamo da nessuna parte secondo te?"
"Non mi sembra una buona idea mettersi a cercare ragazzini in giro per strada"
È sempre così saggio Lui.
Abbiamo quindi optato per la Muffineria che sembrava un buon posto dove smaltire la cocente delusione per il mancato giro sulla ruota panoramica.


Si, beh, in effetti non che io potessi mangiare grandi cose dentro la Muffineria, ma solo entrarci mi ha rimesso di buonumore. Muffin ovunque, milioni di muffin. Muffin di ogni tipo, colore e sapore. Almeno credo che i sapori fossero diversi perché io ne ho assaggiato solo uno.
Si, la mia dieta è di nuovo abbastanza variegata, un po' più triste di quella dei comuni mortali, ma oh, fino a due settimane fa un muffin pensavo di non vederlo più nemmeno in cartolina.
Fidanzato invece non si è risparmiato che d'altronde le ferie stancano, quindi doveva in qualche modo rimettersi in forze. E poi Lui potrebbe anche mangiare qualsiasi cosa ininterrottamente per ore e ore e non accusare minimamente. Si, lo invidio da morire per questo.


Che poi, la Muffineria -che credo abbia aperto da poco, io l'ho notata per caso una decina di giorni fa passandoci davanti in macchina- è piena di libri. Libri ovunque. Muffin e libri ovunque, praticamente un sogno.


Non so, mi sembra che piano piano tutto stia tornando a posto, mi sembra che sia tutto più semplice.
Vorrei essere sempre felice come in questi giorni in cui un muffin basta per dimenticare la ruota panoramica che ho aspettato per anni.

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lunedì 2 gennaio 2017

2017: 3,2,1,in onda.

Il 2017 è in onda e io non ho una lista di buoni propositi, non so neanche se ne ho mai fatta una.
Non ho fatto nemmeno un bilancio del 2016, l' ultima settimana dell' anno appena finito è stata così frenetica ed emozionante che me ne sono completamente dimenticata.
Il 31 Dicembre, quando mancavano 30 secondi alla mezzanotte, ero l' unica rimasta dentro casa ad aspettare il -10 della tv per dare il via al conto alla rovescia per chi era già fuori in giardino. Correndo su dei tacchi da 12 cm sono arrivata fuori anche io urlando -2. Correvo sui tacchi e nel frattempo facevo il conto alla rovescia. Ci ho messo solo otto secondi, mica pizza e fichi. Otto secondi è il tempo limite dopo il quale si mette il cartello "le trasmissioni riprenderanno il prima possibile".
Negli anni, ho fatto così tanti countdown che ormai mi riesce bene. Solo che stavolta non era "3, 2, 1, in onda", ma "3, 2, 1, auguriiiiii buon anno". Fa lo stesso, no?
Ho salutato il 2017 sentendo freddo perchè sono convinta di avere ancora 15 anni e poter indossare abitini e magliette leggere senza morire assiderata. Ho iniziato quindi questo nuovo anno facendo una considerazione sbagliata -maglia di paillettes e coprispalle di raso- a 0°. Di considerazioni sbagliate ne ho fatte due se ci mettiamo il tacco 12.
Comunque, comincio il nuovo anno senza una lista di buoni propositi, senza particolari aspettative, ma con qualche certezza.
Ci sono 10 kg in meno. Se poi diventeranno 20 si vedrà.
Ci sarà Milano, di nuovo.  Ci sarà Stoccolma che fino a pochi giorni fa era solo Ikea e librerie Billy, ma che adesso sarà molto molto di più.
C' è una nuova macchina che ho scelto secondo i miei gusti trash. So che chi mi conosce bene ha paura per il colore, ma quello è sobrio. Che poi non è di un solo colore, ma questa è un' altra storia.
Ci sarà una cosa che vi stupirà, che da me e Fidanzato non vi aspettate. E no, non sono incinta (lo so, lo so, lo preciso ogni volta, ma sapete com' è). Fidanzato, per la cronaca, si chiama Alessandro visto che in tanti ultimamente me l' avete chiesto.
So che non è un brutto nome, mai detta una cosa simile, ma ce ne stanno troppi, quindi direi che possiamo tranquillamente continuare a chiamarlo Fidanzato.
Ci sono gli amici di sempre che si sono fatti in quattro in questi ultimi giorni per far si che Milano mi accolga come si deve. 
Ci sono persone che hanno fatto il tifo per me, che mi sono state vicino in questo 2016 e con le quali ho potuto condividere la felicità di questo ultimo periodo. So che ci sarete anche nel 2017 (o almeno lo spero, ma considerate che io odio sbagliarmi).
A tavola, la sera del 31, ero seduta di fronte a Fidanzato. Accanto, da una parte e dall' altra, avevo ginnastica artistica come se piovesse e questo mi fa pensare che sarà un anno pieno di gare e di emozioni da vivere con chi fa parte di questo mondo che tanto amo. 
Ci sono un pò di hotel già prenotati in giro per l' Italia.
Ci sono trasferte già programmate e altre da programmare. 
Ci sarò sempre io a dire "nooooo, questa gara la saltiamo" per poi, due giorni prima, caricarvi in macchina con la forza per fare 2000 km in meno di 48 ore. So che mi volete bene anche per questo.
C' è una proposta per tutelare un pò di più chi è affetto da gravi forme di allergie alimentari. Per ora è solo questo, ma è un grande traguardo.
Ci sarà un progetto per cercare di fare capire ai più cosa si prova, come ci si sente, cosa davvero succede quando il cibo è il tuo nemico numero uno.
Ci sarà più tempo da passare con i miei genitori senza i quali oggi non sarei dove sono. E non pensavo nemmeno che ci sarei mai arrivata fino a qui, con tutto quello che ho adesso.
Ci sarà un nuovo tatuaggio, ma solo se mia madre mi darà il permesso. Vorrei tatuarmi una E, con una farfalla vicino ovviamente. Considerate però che sono più realista di quanto si pensi e so che mia madre questo permesso non me lo darà mai, come d'altronde non ha mai dato quello per gli altri due tatuaggi e i piercing.
Ecco, mi è venuto in mente un proposito da mettere nella lista, in fondo bisogna iniziare da qualche parte: crederci un pò di più perchè quando ci ho creduto è andato tutto come volevo.
Credeteci sempre, provateci perchè il "finalmente una gioia" esiste davvero. 
Quello che non può essere vero, qualche volta lo è.
Buon anno, buon anno e ancora buon anno a tutti.


La foto è di Samira El Bouchtaoui.
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