venerdì 21 settembre 2018

Aprire un blog: istruzioni per l'uso

Da un po' di tempo a questa parte capita spesso che qualcuno mi scriva chiedendomi suggerimenti per  aprire e tenere, nel tempo, un blog di successo.
Ora, io non so cosa intendiate voi per blog di successo, ma posso garantirvi che questo non lo è.
Certo, ha un discreto numero di lettori fissi -alcuni dei quali ormai fanno parte del mio quotidiano- e un ottimo numero di visualizzazioni uniche, ma il successo è altro.
E, per dire, sicuramente è una cosa soggettiva: magari per qualcuno cento visualizzazioni di un post sono indice di successo, io invece ci resterei male, così come per me un milione di visitatori al giorno sono tantissimi, mentre per altri sono bazzecole.

Comunque, se proprio volete avere due dritte per aprire e tenere un blog non necessariamente di successo ve li do. Tenete a mente però che questo è il mio punto di vista e non è per forza giusto.
Tenete a mente che di blog è pieno il web: ormai chiunque ha un blog, chiunque racconta qualcosa e il fatto di avere qualcosa da dire non significa che per forza di cose qualcuno la leggerà.
Di travel blog, food blog e mummy blog poi non ne parliamo. Ce ne sono talmente tanti che io ogni tanto confondo i nomi e gli autori e no, non sto scherzando.

Quindi, ecco: 
-Scegliete un nome bello e che la gente si ricordi, un nome che vi rappresenti e che si sposi con quello che siete.
Non scegliete un nome che vi leghi solo ed esclusivamente ad un argomento perché il tempo passa e le cose cambiano e magari tra due anni non avrete più voglia di scrivere di pappine per nenonati alla zucca settembrina e vi toccherà cambiare nome facendo un casino.
Se scrivete in italiano e vi rivolgete ad un pubblico italiano o che comunque parla e capisce la lingua eviterei un nome in inglese (o in francese o in swahili) e, ancora di più, eviterei nomi metà in italiano e metà in qualsiasi altra lingua.
Intorno al nome costruite un'identità al blog che trasmetta quello che siete: ci vuole tempo, ci vogliono tentativi, ci vuole costanza, non è una cosa che si fa in un giorno (qui vi fate un'idea di come ho fatto io).


Un blog che leggo e che secondo me ha un nome bellissimo è Vieni via di qui, ma ne esistono molti altri.

-Scrivete bene in italiano e dico sul serio. Almeno le basi di grammatica e di sintassi tocca averle, poi ecco: non mi preoccuperei troppo dei refusi, quelli vivono di vita propria, sembra che non ce ne siano e invece si mimetizzano benissimo e sono pronti a saltare fuori anche dopo le trecentesima revisione.
Io faccio notare, in privato, i refusi ad amiche che hanno un blog e loro lo fanno con me e, sono pronta a giurarlo su qualsiasi cosa, quei refusi prima di pubblicare non c'erano, si sono aggiunti dopo spontaneamente, sti stronzi.
Eviterei anche un linguaggio da Dolce Stil Novo perché alle lunghe diventa noioso e la gente da un blog cerca quasi sempre leggerezza e non pipponi: per quelli c'è il telegiornale e le mail di lavoro del capo arrabbiato.

-Non fissatevi sui numeri e sui post sponsorizzati: sono cose che se devono arrivare arrivano, avere un blog è un conto, farne un lavoro è un altro. Troppi post sponsorizzati in generale a me non piacciono e ammetto candidamente che io i blog sponsorizzati smetto di leggerli: va bene un post, ne vanno bene due, poi mi stufo. La mia è una scelta, non necessariamente condivisibile.

-Non copiate, non fatelo mai. Succede di non avere nulla da raccontare o di non avere l'ispirazione giusta per scrivere qualcosa, ma piuttosto che rubare (si, rubare) contenuti altrui evitate di pubblicare che tanto non muore nessuno (qui, per dire, ho raccontato di quando mi hanno copiato il blog per intero).

-Non scrivete cose di cui potreste pentirvi pensando di poter restare anonimi per sempre.
Quando ho aperto questo blog nessuno sapeva chi c'era dietro, adesso credo che siano davvero in pochi -quanto meno tra i lettori fissi- a non sapere come mi chiamo, cosa faccio e che faccia ho e va bene così. Questo però significa essenzialmente una cosa: che se racconto di quanto è stronzo il mio capo -giusto per fare un esempio- ci sono grandi possibilità che lui lo scopra e non sarebbe piacevole.
Se decidete di parlare male di qualcuno, evitate di fare nomi, tanto -credetemi- che si capisce lo stesso. E se qualcuno si sentirà offeso dalle vostre parole, se non lo avete nominato, fregatevene ampiamente (qui ho raccontato di quando una cosa simile è successa a me) che le manie di persecuzione sono tanto brutte quanto diffuse.
Cercate anche di capire quando è il caso di raccontare una determinata cosa e quando è il caso di aspettare tempi migliori (per scrivere questo post, per dire, ho aspettato due anni e mezzo).
Se avete l'abitudine -che ne so- di fingervi malati per andare al mare invece che al lavoro evitate di scriverlo sul blog, così come se avete l'abitudine di rubare le caramelle al supermercato.
In generale, ricordatevi che siete sempre responsabili di quello che scrivete.

-Ricordate, quando pubblicate qualcosa, che non tutti saranno d'accordo con voi perché è così che va la vita.
Date a chiunque la possibilità di replicare e non offendete mai chi la pensa in modo diverso da voi che, ecco, il fatto di essere i proprietari di un blog non vi autorizza ad essere maleducati con chi vi legge e non la pensa uguale a voi.

-Scrivete perché vi piace, fate che scrivere sia una passione, altrimenti lasciate perdere.

E, al momento, non mi vengono in mente altri consigli per iniziare, ma in generale sono convinta che da cosa nasce cosa, quindi -se è quello che volete- aprite un blog e poi linkatemelo che io cerco sempre cose nuove da leggere.
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giovedì 13 settembre 2018

Starbucks, Frappuccini e nomi storpiati

A me Starbucks sta profondamente antipatico. 
Il motivo è semplice: sbagliano sempre a scrivere il mio nome sui loro bicchierini e bicchieroni di cartone e io, al mio nome, ci tengo particolarmente.
Il fatto che sia una geniale operazione di marketing che fa si che tutti (me compresa) scattino una foto al bicchiere -ino o one che sia- con il nome storpiato e la pubblichino sui social all'urlo di "guardate cosa hanno scritto al posto del mio bellisssssssimo nome" facendo di fatto pubblicità al signor Starbucks non mi consola affatto.


E poi, diciamoci la verità: io sono italiana, sono nata e cresciuta nella patria del caffè espresso -che bevo rigorosamente amaro- e non potrò mai e dico mai amare un Frappuccino qualsiasi.

Devo anche aggiungere che non ho particolare simpatia neanche per Milano e non riesco a tollerare che qualsiasi cosa apra in Italia apra lì e non a Roma che non solo è la capitale d'Italia, ma è anche la città dove vivo, ma questa è decisamente un'altra storia.

Fatte queste doverose considerazioni, aggiungo anche che io viaggio parecchio, sicuramente meno di altri, ma ecco: esco dall'amato Stivale diverse volte l'anno e, ebbene si lo ammetto,  Starbucks è sempre stata una certezza. So cosa è, so cosa fanno, so cosa troverò.
Ovunque andrò so che ci sarà uno Starbucks ad attendermi con Frappuccino, nome scritto a pene di segugio, wi-fi gratuita e possibilità di pagare sempre con il bancomat fossero anche pochi centesimi.
E, volendo, potrò anche comprare una tazza a marchio Starbucks per la mia amica Arianna che le colleziona: gliene compro sempre una e poi le tengo a casa in attesa di vederla visto che viviamo a 600 km di distanza, ma anche questa è un'altra storia.
Starbucks ha aperto a Milano e non va bene perché oh, noi abbiamo il caffè più buono del mondo, così come abbiamo la pizza più buona del mondo, la pasta più buona del mondo, i dolci più buoni del mondo, qualsiasi altra cosa edibile più buona del mondo.
Eppure eh, in Italia esiste il libero mercato: io apro quello che mi pare e tu consumatore scegli dove portare il tuo culo e i tuoi soldi. Se scegli di non portarmi i tuoi soldi perché il Frappuccino mina al tuo onore e alla tua onestà intellettuale me ne farò una ragione e, se altri mille milioni faranno come te, chiuderò alzando bandiera bianca e lasciando spazio, su territorio italico, al sushiaro numero 2.567.787 (che non ve lo vorrei dire, ma manco il sushi è italiano, ma tant'è).

Al di là del Frappuccino e del nome scritto male, fatevi un giro per bar e caffetterie in Italia: a Milano, a Roma, ovunque vogliate voi.
Adesso provate a cercare una presa di corrente dove ricaricare lo smartphone, il pc, il tablet. 
Oh si, lo so: lo smartphone andrebbe ricaricato a casa, ma provate anche a stare fuori sedici ore con uso intensivo del telefono e poi ditemi se anche voi non avete bisogno di una fottutissima presa.
Da Starbucks puoi ricaricare quello che vuoi, pure il vibratore da taschino. E no, non ti fanno pagare la corrente.
A dire il vero, da Starbuck puoi anche stare seduto quanto vuoi a leggere, a studiare, a guardare il soffitto aspettando l'idea geniale che vi rivoluzionerà la vita senza obbligo di consumare.
Potete anche solo sedervi dentro perché fuori fa freddo e scroccare il wi-fi. A Berlino, per dire, io l'ho fatto. E il wi-fi gratuito non è che ve lo diano proprio in tanti, eh. Meglio oggi che dieci anni fa sicuramente, ma ripeto: non ve lo danno in tanti. 
Si, so anche che dovremmo guardarci negli occhi e chiacchierare, ma io viaggio anche da sola e per lavoro, eh. E a Stoccolma ho scroccato il wi-fi a Starbucks sorseggiando non ricordo manco cosa mentre scrivevo mail e non avevo nessuno con cui parlare.
Nessuno vi caccerà anche se prenderete solo un caffè espresso (si, lo fanno sul serio e non fa manco poi così schifo, quello di Amsterdam non era male ad esempio).
Infine, provate a pagare un caffè con il bancomat in una qualsiasi caffetteria.
Vi guarderanno con disprezzo e probabilmente non accetteranno il pagamento, ammesso che abbiano il pos, eh. Perché ci sono le commissioni pare. E io ci credo che ci sono le commissioni e so che sarebbe meglio se non ci fossero, sia per l'esercente che per il consumatore, ma ci sono  e io vorrei poter pagare con il bancomat ovunque senza sentirmi una pezzente solo perché non giro con i contanti (ripeto: non giro con i contanti, non ne ho mai, tutti i miei amici e parenti possono confermare).
Oppure provate a pagare in un bar qualsiasi con una banconota da 50€ (o addirittura da 20€): vi faranno presente che non sono un ufficio di cambio e ci sta, è vero, hanno ragione, ma io che ci posso fare se non ho monete? Non prendo il caffè? Non faccio colazione? Cammino in ginocchio sui ceci per sei km?
Ora, provate a fare la stessa cosa da Starbucks: prendono bancomat, banconote da 500€, assegni circolari e cambiali del 1970 con su scritto "pagherò".

E non ultimo: Starbucks a Milano ha dato posti di lavoro che va bene che si lavora anche la domenica e, si sa, in Italia la domenica è della famiglia e guai a proporre di lavorare la domenica a qualcuno senza essere linciati dalla folla, però non è malaccio come cosa.
No, non sto difendendo Starbucks a tutti i costi, onestamente non me ne frega un tubo, però ecco: ma che fastidio vi da? Non vi piace? Non andateci. Vi piace? Andateci e ingozzatevi di Frappuccini e cookies.

Che poi eh: io me lo ricordo quando ha aperto Mc Donald's a Palermo, in Piazza Castelnuovo (che sarebbe Piazza Politema per intenderci) nel lontano 1997. Tutti a urlare allo scandalo per il pagliaccio americano, eppure ci sono state file chilometriche per mesi e, a dire il vero, ci sono tuttora.
E mi riferiscono che sono passati vent'anni e i venditori di arancine e quelli di sfincione non sono ancora falliti. 
Sarà mica che due cose diverse possono convivere senza problemi e senza polemiche?

E comunque io a Milano da Starbucks ci andrò, prenderò un Frappuccino e vi mostrerò pure la foto del bicchiere con il mio nome storpiato scritto sopra. Per dire, eh.
E sono pure contenta che il primo Starbucks italiano che avrei certamente preferito a Roma, sia diverso dagli altri e che sia il più grande d'Europa e il terzo più grande del mondo.
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venerdì 7 settembre 2018

Settembre (e un sacco di altre cose)

Settembre è un mese che mi piace da morire.
Sarà che è un mese non troppo caldo -anche se, lo ammetto, mi è capitato di trovare 40° in Sicilia)- e le giornate si accorciano, ma sono ancora abbastanza lunghe. 
Arriva l'autunno che, ora, ditemi voi se le foglie che cadono non sono bellissime.
E poi, Settembre profuma d'inverno q.b. (si, come il sale nelle ricette) e a me fa venire voglia di piumone grado di calore cinque -sempre sia lodato San Ikea- e di albero di Natale.


Questo Settembre è iniziato col botto e, anche se non è ancora finito, resterà indelebile nei secoli dei secoli.
È da giorni che fisso il cane con il collare elisabettiano -da me ribattezzato cono- che lo rende molto simile ad una lampadina, anche lui perfettamente a tema Natale che, si sa, le luminarie servono a rendere più belle le strade e i negozi durante le feste.
Lo osservo sbattere a destra e a sinistra, visto che dopo una settimana ancora non ha preso le misure, e incastrarsi ovunque. 
Possibilità di uscire senza cane che si incastra pari alle zero.
Possibilità di uscire con cane al seguito pari alle zero visto che sbatte sulle persone non avendo una visuale completa e visto che gli altri cani ringhiano inferociti alla vista del cono che si sa, gli animali sono anime candide e sincere ed esprimono così il loro disprezzo per il quadrupede momentaneamente disabile.
Prima di avere il divieto assoluto di togliergli il cono visto che il cane -che a me sembrava scemo, ma  evidentemente non lo è- è riuscito a grattarsi comunque e a staccarsi la crosta della gigaferita che ha sul muso, una sera abbiamo provato a renderlo cane e non lampadina per dieci minuti e lui, per impedirci di ritrasformarlo in luminaria, si è buttato sul letto a peso morto e ci siamo spaccati la schiena per tirarlo su.
Il Marito intanto guarda il cane con aria affranta e gli dice: "Capitano tutte a te e a mamma". Visto che la mamma sarei io, mi permetto di dire che non l'ho capita. Che mi stia dicendo, velatamente, che sono una sfigata?

Questo Settembre è anche il mese che sancisce i -14 kg, nonostante un mese di mantenimento per le vacanze perché la mia dietologa è diversa e mi ha detto che "in vacanza non si ingrassa, quindi mangia, goditi i dolci e quello che ti pare e poi vediamo", ma siccome in qualcosa ho fortuna pure io mi sono presentata al controllo con due chili in meno e ho vinto quantità aumentate di tutto che se prima non riuscivo a finire la cena, adesso devo chiamare il vicino per mangiare quello che ho nel piatto, ma va bene anche questo che, in fondo, è una soddisfazione enorme, no?

Chiedetemi se sono felice e vi dirò di si, nonostante il cane lampadina e nonostante quando l'hanno aggredito sono io che ho visto il bestio di 70 kg senza guinzaglio venirci addosso per sbranare il mio amato nano. Perché ecco, lui è vivo e in fondo poteva andare peggio.
E poi perché ho fatto una scelta che è quella di tenermi distante dalle persone negative che succhiavano le mie poche energie, quindi se qualcuno se ne approfitta troppo, cerca di affossarmi o altro sopporto un mese, forse due e poi arrivederci e grazie che io di vita ne ho una sola e già non posso mangiare la Nutella, figuriamoci se posso sopportare anche chi è così.

Buon Settembre e buon ritorno alla routine, nella speranza che sia un pochino più tranquilla della nostra.
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domenica 2 settembre 2018

Palermo: allergici in viaggio

Palermo, interno notte, rosticceria.
"Scusi, con che olio friggete?"
"Ma quale olio signora, friggiamo con lo strutto"
"Benissimo, grazie, allora mi dia tutto".
"Amore ma lo strutto non è un po' pesante?"
"Sempre meglio dell'olio di arachidi, non pensi?"
"In effetti..."

Mi piace mangiare e tanto anche.
Se devo scegliere una cucina che amo più di ogni altra cosa, scelgo quella della mia città natale a costo di sembrare di parte.

Quando ho scoperto di essere allergica, Palermo -dove all'epoca vivevo- non era pronta così come probabilmente non era pronto nessun altro posto: erano tempi in cui di allergie si parlava pochissimo, qualcuno conosceva la celiachia (che non è un'allergia, eh, tenetelo a mente), ma per il resto zero proprio.

Era l'estate del 2007 quando, tornando dal mare con mia madre, ci eravamo fermate a prendere un gelato, la barista aveva mentito sugli ingredienti pur di vendere un cono e io ero finita in ospedale con il labbro che mi arrivava alle ginocchia. Ai tempi non esisteva neanche la normativa sull'etichettatura dei cibi che obbligava ad evidenziare gli allergeni.
Era l'estate del 2017, appena un anno fa, quando un barista faceva casino con una paletta per il gelato e mi mandava per direttissima nel vicino ospedale (lo avevo raccontato qui).
È tutta la vita da allergica che sento minimizzare il problema, che quando chiedo qualcuno ride, che la gente dice che gli allergici devono stare a casa loro (qui trovate il mio sfogo), che dico di essere allergica e mi chiedono a cosa sono intollerante. Succede ovunque, succede sempre e comunque, ma io -testarda come un mulo- non mi sono mai arresa nel pretendere una vita (quasi) normale: non ho mai smesso di uscire, di viaggiare, di mangiare (no, non le cose a cui sono allergica ovviamente).
Sono peggiorata, gli alimenti da associare alla parola morte sono aumentati, ma io ho continuato imperterrita a pretendere questa normalità.
L'ho fatto con gentilezza, spiegando a tutti qual 'è il problema, prendendo un milione di accorgimenti e chiedendo in bar, ristoranti, gelaterie tutto quello che mi serviva sapere per capire se potevo o meno mangiare qualcosa.
Ho sviluppato un sistema di indagine di una precisione pazzesca, con domande mirate che altro che gli interrogatori ai criminali.
Una delle domande preferite è "con che olio friggete?" e ho stabilito che non dico subito qual 'è l'olio che non ci deve essere perché, sai mai, potrei influenzare la risposta, ma di domande ce ne sono tantissime. Poi osservo e tanto anche, a volte dico di si, altre volte scuoto la testa perché non mi fido e ce ne andiamo.

Dicevo: vent'anni fa Palermo non era pronta e non era la sola.
Questo non essere pronta è durato una vita o almeno a me quello è sembrato.
Poi quest'anno la svolta.

Sono entrata nella gelateria dove l'anno scorso mi avevano quasi uccisa, nessun altro forse lo avrebbe fatto e ho notato subito che hanno migliorato le cose per evitare episodi come quello che è accaduto a me. Sono più attenti, più precisi e di me, per inciso, si ricordavano.
"State attenti alla signorina, qualcuno si dedichi solo a lei".

Ho mangiato fuori spesso e volentieri e quando ho fatto qualche domanda senza inizialmente dire perché (ve l'ho detto, non voglio influenzare le risposte in un primo momento) tutti -e quando dico tutti intendo tutti- mi hanno anticipato: "Signora, è allergica, vero?"
Non mi hanno chiesto se fossi intollerante, mi hanno chiesto se fossi allergica che a voi sembrerà una piccolezza, ma non lo è.
Mi hanno, ancora prima che lo chiedessi, mostrato, spiegato, fatto vedere.
Sono stati tutti onesti, hanno controllato, ricontrollato, controllato ancora una volta.
Qualcuno che mi ha sentito chiedere ha aggiunto che le allergie sono pericolose, che le conosceva perché aveva letto qualcosa al riguardo o che conosceva un allergico. 
Quando ho chiesto qualche accorgimento particolare, in realtà lo avevano già previsto loro.
È successo ovunque, sempre e comunque.
Non avevo mai avuto la sensazione di sentirmi così sicura, così capita, così uguale a tutti gli altri clienti di un ristorante. 
Che poi, diciamo la verità: se io avessi un ristorante e arrivasse una cliente come me sarei disperata. Lo dico davvero, eh. Una che non mangia un tubo, che fa tutte quelle domande, che però ama il cibo e mangia come un bue non sarebbe il mio cliente ideale.
Sarò impopolare, ma avere a che fare con una -come me- che è un dito al c**o simile quando deve mangiare è una cosa che mi risparmierei volentieri. Cioè, quando devo fare la spesa o cucinare o andare a cena da qualcuno mi sto sulle palle da sola, figuriamoci agli altri.

Sono andata al mercato con mia mamma e abbiamo trovato gente attenta e disponibile.
Ho passato quasi un'ora a parlare di allergie dal fruttivendolo: io caso umano, lui allergico alle nocciole, siamo tornati a casa pieni di frutta e verdura.

Ho trovato commovente che, in un mondo in cui ancora si chiama frutta secca la frutta a guscio e si pensa che le arachidi facciano parte della categoria, ci fosse chi da il nome giusto alle cose.
Ho anche trovato commovente nella patria di mandorle e pistacchi ci fossero comunque milioni di dolci che aspettavano solo di essere mangiati da me (senza mandorle e pistacchi ovviamente).


Ho visto mia zia dire fiera, in occasione di una cena a casa sua, che non c'erano determinate cose in casa perché sua nipote è allergica. 
E ho visto, per la prima volta in tanti anni, i miei genitori e il marito guardarmi mangiare sereni. E, in effetti, quest'anno non ci sono stati intoppi.

Qualsiasi cosa sia successa, sapere che tanti sanno e capiscono per me è un traguardo enorme.
Che questo traguardo lo abbia raggiunto la mia città mi riempie il cuore d'orgoglio.


Se vi interessa avere qualche dritta per viaggiare con le allergie alimentare cliccate qui.
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sabato 1 settembre 2018

Segesta che sembra Grecia, ma invece è Sicilia

Qualche anno fa, per caso, mi ritrovai per una selva oscura che la diritta via era smarrita a passare davanti il Tempio di Segesta con il Marito. Era sera, il parco archeologico era chiuso, ma il tempio illuminato era davvero molto suggestivo.
Da quel giorno, il Marito è entrato in fissa con Segesta che voleva assolutamente visitare, visto che evidentemente non gli era bastata la Valle dei Templi di Agrigento.
Entrambi sono posti meravigliosi, sia chiaro, ma provate ad andare con 48° all'ombra e il sole che picchia forte e poi ne riparliamo.


Comunque, dicevo che il Marito voleva assolutamente vedere Segesta e qui è necessaria una precisazioni: io sono stata a Segesta almeno una volta l'anno dai sei ai diciassette anni.
L'ultima volta che c'ero stata ero andata con la scuola: in occasione di un gemellaggio con un liceo greco, i professori avevano avuto la brillante idea di portare questi ragazzi greci a vedere un tempio ed un teatro greco visto che ovviamente ad Atene mica ce l'hanno il Tempio greco (se ve lo state chiedendo, la risposta è si, sono sarcastica). Si, ho ripetuto la parola greco un numero spropositato di volte, giusto a sottolineare l'assurdità della cosa.
Che poi per carità, magari il Tempio greco di Segesta è tenuto meglio del Partenone, io questo non lo so, ma non ho mai pensato fosse stata un'idea geniale, ma tant'è.

Anche quest'anno, come da tradizione, il Marito ha espresso in modo pacifico e per nulla insistente la sua volontà di andare a Segesta, ma la sua euforia è stata frenata dal fatto che gli ho spiegato che io, in caso di caldo afoso, valuto solo un'opzione: il bagno al mare di una durata minima di sette ore consecutive con pausa solo per mangiare il gelato.
Poi è successo che quest'anno Agosto ha pensato bene di fingersi Novembre e così siamo andati con la bellezza di 30° invece che 45° che comunque è già un buon risultato. Si gronda sudore comunque, eh, ma almeno non si stramazza morenti al suolo.

Cosa c'è da vedere a Segesta?
Segesta è un parco archeologico, si trova a Segesta-Calatafimi, in provincia di Trapani, a meno di 80 km da Palermo. C'è proprio l'uscita autostradale per Segesta e si finisce letteralmente in bocca al parco archeologico.
Tenete a mente che Segesta è praticamente solo il parco archeologico e Calatafimi è il paese.
All'interno del parco archeologico ci sono un Tempio e un teatro greco. E poi c'è un sacco di natura, se vi piace il genere.
Bisogna munirsi di scarpe comode perché si cammina sullo sterrato e sul brecciolino e forse camminare lì con le scarpe con tacco a spillo non è una buona idea (lo preciso perché ne ho viste parecchie di donne taccomunite rischiare di cadere e rompersi l'osso del collo).








Sono abbastanza certa che un tempo si potesse parcheggiare nel parcheggio del parco archeologico, ma adesso non si può più fare. Adesso c'è un parcheggio convenzionato a meno di due km con un servizio navetta compreso nel prezzo.
Per parcheggiare una macchina si pagano 5€ e tutte le persone a bordo possono prendere la comoda navetta senza aria condizionata.
Se state pensando di parcheggiare sulla strada sappiate che non si può perché tutta la zona ha il divieto di sosta e di fermata, quindi l'unica soluzione è questo parcheggio.

L'ingresso al parco costa 6€ e si può restare quanto si vuole.
Il Tempio è a pochi passi dall'ingresso e merita tutte le attenzioni del mondo.
È immerso nel verde e nel silenzio.








Il Teatro invece è a 1250 metri dall'ingresso, con un dislivello di circa 500 metri.
C'è un comodo servizio navetta, il biglietto costa 1.50€ a/r e onestamente vi consiglio di prenderlo se fa caldo.
Ho visto gente salire a piedi sotto il sole con passeggino e neonato e non mi è sembrata una buona idea. Considerate che lungo la strada non c'è assolutamente nulla: né un bar, né un bagno, né tanto meno un filo d'ombra. Se cominciate la salite poi dovete finirla o tornare indietro.
Dalla cima si vede un paesaggio meraviglioso, si scorge anche il golfo di Castellammare del Golfo (non si chiamerebbe così se non fosse un golfo, no?) ed è davvero uno spettacolo.
Noi siamo rimasti parecchio tempo a goderci la pace e il silenzio, il Marito era contento come un bambino a cui è stata regalata la Play Station 4 e io mi sono goduta un posto che avevo si visto decine di volte, ma che forse -sarà stata l'età- non avevo apprezzato abbastanza.




Consiglio di andarci? Si, ma eviterei i periodi di caldo afoso, ve l'ho detto che con il caldo io valuto solo bagno al mare e gelato.
Consiglio anche di andare a vedere gli spettacoli al teatro che ci sono per tutta l'estate e che sono molto suggestivi.


Se volete leggervi la battaglia dello scorso anno tra l'andare a Segesta e l'andare a Erice, cliccate qui.

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