Visualizzazione post con etichetta genitori. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta genitori. Mostra tutti i post

venerdì 11 settembre 2020

Venerdì di inaspettata felicità

Ci sono giorni che so perfettamente che l'incastro perfetto delle cose è dovuto a qualcuno che mi osserva e mi protegge.
Non sono credente, non so cosa ci sia dopo la morte, ma sono certa che mio padre mi vede, sa quello che faccio (pure le cose che prima non gli dicevo per non farlo preoccupare) e, in alcuni casi, ci mette lo zampino. Liberissimi di prendermi per scema, lo capirei eh.

La scorsa settimana ho fatto due brutti sogni, con lo stesso protagonista, di quelli che fanno da presagio a qualcosa di sgradevole.
Puntuale come i treni in Svizzera, il presagio (ora, non vorrei sembrare una maga, ma immagino sia chiaro cosa intendo) si è trasformato in un paio di telefonate fastidiose, di quelle che ti fanno pensare seriamente che dovresti cambiare numero (anche se ecco, ho lo stesso numero di telefono da vent'anni e so che non lo cambierei mai). Il fastidio mi è rimasto tutto per qualche giorno, un inizio settimana al sapore di male, di quelli in cui ti chiedi quale disgrazia accadrà, con la mia migliore amica (qui avevo parlato di lei) che mi ha fatto presente che lei crede nei segnali -e tanti se ne sono manifestati in questa settimana- e se non l'amassi immensamente probabilmente l'avrei sgozzata.
Attendo ancora che i segnali diano il loro frutto, sperando non accada, però c'è un però.
Devo comunque dire che tutta sta storia l'ho affrontata in modo sportivo, prendendo applausi dalle amiche che temevano che, ecco, l'avrei presa peggio, magari uccidendo qualcuno (scherzo eh, nessuna persona, animale o cosa é stata maltrattata e non ho manco lanciato il telefono contro il muro).

Oggi è venerdì.
Nonostante una vita da turnista, che ha sempre considerato sabati, domeniche e festivi normali giorni lavorativi, sono vittima del fascino del venerdì (qui vi fare un'idea) che chiude la settimana e del fastidio del lunedì che la apre.
C'è anche da aggiungere che succede qualcosa di venerdì di solito devo aspettare il lunedì per risolverla, se non succede qualcosa che aspetto devo aspettare quanto meno il lunedì, insomma un macello.
Questo é un venerdì iniziato al sapore di male, con la cagna che é stata male tutta la notte, corse contro il tempo per uscire di casa all'orario giusto che se perdi il minuto giusto poi sono sette ore di traffico in più e ulteriori insulti gratuiti a chiunque, Pippo in primis (se non sapete a cosa mi riferisco, é evidente che non conoscete nessun romano).
Poi é arrivata la prima buona notizia, poi la seconda, poi la terza, infine la quarta. Quattro buone notizie nel giro di due ore sono troppo persino per me che sono un'inguaribile ottimista che vede pace, gioia e amore infinito anche nella fine del mondo. Cose che aspettavo, cose che non aspettavo.
Se non fosse che io non voglio assolutamente sfidare il karma, chiederei anche di ricevere una notizia -o meglio una data- che attendo da ormai un po' e che non arriva, ma sto calma, buona e attendo che poi magari il karma si incazza e tra due anni sto ancora aspettando.
Quando succedono queste cose, inaspettate, che migliorano la giornata e anche il week-end -devo comunque dire che io sono una che si accontenta di poco per essere felice- tutte insieme io credo sempre che sia mio papà, come dicevo, che mi guarda e mi da una mano, magari memore della settimana precedente che mi ha visto un pochino più avvilita.


La chiusura definitiva di una rottura di scatole con comunicazione ufficiale, la notizia di una trasferta di lavoro (si chiama trasferta anche se dura un giorno solo, vero?) in cui riesco ad infilare un pranzo con un'amica che non vedo da un po', esami medici che danno buone notizie, un'ottima -almeno per me- forma fisica, dove per ottima forma fisica si intende che non sono piena di cose rotte, che riesco a fare cose che un anno fa mi sognavo e roba simile, un viaggio a breve termine, ottime notizie lavorative. Niente di che direte voi, ma a parte i sogni fastidiosi della scorsa settimana, per me questo Settembre e questo ritorno alla routine é stato davvero incasinato. Pensavo sarei stata più libera, che avrei avuto più tempo, complice anche l'aiuto della mamma (se no probabilmente col cavolo che andavo in trasferta, in palestra e tutto il resto) e invece no: gestire cose vecchie e nuove, dopo mesi in cui tutto o quasi si era fermato, avere di nuovo a che fare con il traffico infinito, infilare tutte le cose da fare e le esigenze di tutti (comprese quelle del cane con la cacarella e il vomito, scusate la brutta immagine) si è rivelato più faticoso di quanto credessi.
Basti pensare che ieri sera, per andare a cena con un'amica, ci ho messo un'ora quando normalmente ci avrei dovuto mettere venti minuti e ovviamente avevo calcolato tutto, infilando anche il rifacimento delle unghie e il crossfit, al centesimo di secondo.

E quindi niente: grazie papi, sei tu che mi hai dato la forza di affrontare cose che non avrei mai pensato di poter affrontare, di allontanare tutto quello che c'era di negativo, di non avere bisogno di chi avrebbe fatto più danni che altro e sei sempre tu che, secondo me, ci metti lo zampino per regalarmi sorrisoni e venerdì felici.

Ps. Se oggi riesco anche a comprare i prodotti per capelli che mi ha consigliato l'amica di cui sopra (che per queste cose é la numero uno e non scherzo) credo che esco in strada e mi metto a ballare. Chiedo comunque scusa per la latitanza, sono attiva sui social, ma poco sul blog, per i motivi di cui sopra. Un giorno incastrerò tutto al meglio, ma quel giorno evidentemente non é oggi.
Continua a Leggere

domenica 26 luglio 2020

Senza giri di parole

Quando muore qualcuno, la vita di rimane cambia. Cambia tantissimo, cambia profondamente, cambia così tanto che solo se ci siete passati capirete cosa intendo.
Non credo di stare dicendo qualcosa di nuovo, non credo di essere la prima a dirlo e non credo neanche che sarò l'ultima.

Mio padre é morto improvvisamente quasi un anno e mezzo fa e la mia vita da allora é completamente cambiata.
Non in peggio, non in meglio, ma é cambiata.
Dopo quasi un anno e mezzo, il giorno che è morto mio padre resta il giorno più brutto della mia vita e quello che é seguito é stato -a tratti- anche peggio. E lo dico così senza giri di parole, esattamente come senza giri di parole avevo scritto che papà non c'era più.
Ci sono state anche cose belle, io ho ritrovato la serenità e la felicità, ma non é la stessa cosa, non sarà mai la stessa cosa.

Io non ho dormito per mesi, ancora oggi a volte faccio fatica.
Mi sono svegliata urlando durante la notte centinaia di volte, sempre con la stessa immagine di mio padre steso dentro una bara.
Quando non ho urlato, ho avuto il sonno talmente agitato da essere svegliata persino dai cani preoccupati.
Sono andata da una psicologa perché rivolevo la mia serenità. E si, mi ha dato una grossa mano, piano piano, ci é voluto tempo e non credo sia ancora finita.
Ho chiesto di mio padre rincoglionita dall'anestesia appena uscita dalla sala operatoria.
Ho chiesto di mio padre quelle volte che mi sono resa conto che stavo per smettere di respirare per una reazione allergica.
Ho passato il primo anno a contare ogni singola ricorrenza.
La prima festa del papà senza un papà a cui fare gli auguri.
Il primo compleanno senza papà, consapevole che da sempre era il primo a farmi gli auguri.
Il primo compleanno di mio padre, cinque giorni dopo il mio.
Il primo anniversario di matrimonio dei miei genitori, cosciente che ai miei auguri avrebbe risposto sempre con la stessa frase.
Il primo Capodanno, considerato che mio padre era il primo a farmi gli auguri a mezzanotte.
La prima vacanza senza mio padre ad aspettarmi per abbracciare la sua bambina.
La prima pizza nella nostra pizzeria del cuore senza di lui, il primo gelato nella nostra gelateria senza di lui. Mio padre viveva a Palermo da cinquantasette anni quando é morto e ancora non si capacitava di come fosse possibile che la gente mangiasse pane e gelato (dove per pane si intende la brioche), mentre io -palermitana doc- continuavo a chiedermi come fosse possibile che lui, pur vivendo da sempre a Palermo, mangiasse il gelato nella coppetta.
Ho comprato decine e decine di vestiti e mi sono sempre chiesta cosa avrebbe detto mio padre a cui da sempre chiedevo un parere su ogni singola gonna, ogni singolo vestito, ogni singola maglia.
Mi sono chiesta cosa avrebbe detto del coronavirus e del lockdown, soprattutto del lockdown.
Ho immaginato che mio padre avrebbe amato Mila perché é una ruffiana e lo avrebbe conquistato.
Ho pensato a tutte quelle volte che ho detto "papà sto lavorando, ci sentiamo dopo" quando mio padre mi chiamava perché voleva salutarmi, ma ho ringraziato quell'ostinazione per cui ho sempre voluto fare le vacanze estive a Palermo pensando che mio padre non ci sarebbe stato per sempre.
Ho pianto.
Ho detto milioni di volte che mi manca mio padre ed era sempre vero. Ci sono state volte in cui non l'ho detto, ma mi mancava da morire.
Non sono mai andata al cimitero, tutte le volte che mi convinco succede sempre qualcosa: una volta tutte le strade chiuse, un altro giorno l'alluvione, manca solo l'invasione delle cavallette.
Ho un promemoria in cui mi sono segnata esattamente il punto in cui si trova mio padre, all'interno della cappella di famiglia, perché al cimitero di Palermo, dove é seppellito, non hanno spazio per le nuove sepolture e hanno preso l'abitudine di mettere le bare nelle cappelle altrui e io temo che un giorno, quando porteranno via gli ospiti per dare loro una degna sepoltura, sbaglino e si portino via mio padre, cosa che razionalmente é impossibile, me ne rendo conto, ma le paure non sono razionali.
È stato un anno e mezzo lungo, a volte complesso, sono convinta che se ci fosse stato mio padre sarebbe stato tutto più semplice.
Ho tatuato il nome di mio padre sul braccio un anno fa, un paio di giorni dopo la sua morte avevo detto ad una collega che volevo fare un tatuaggio. Volevo una scritta. Ci avevo messo quasi quattro mesi per fare effettivamente quel tatuaggio (ne avevo parlato qui). Ad oggi, dei dieci tatuaggi che ho, tre sono dedicati a mio padre. Mi sono chiesta milioni di volte se gli sarebbero piaciuti e la risposta che mi do sempre é che probabilmente quello che gli sarebbe piaciuto di meno é quello dei tre che io trovo più bello.


Io non so cosa ci sia dopo la morte, ammesso che ci sia qualcosa.
So però cosa c'é per chi rimane qui, a fare i conti con la morte di qualcuno che si ama.
So che non é facile, che per qualcuno -e io sono evidentemente tra questi- é particolarmente difficile.
So che se il dolore é troppo e non si riesce ad affrontarlo da soli, chiedere aiuto non é una cosa sbagliata, né una vergogna.
So che il dolore può farci impazzire.
So che non é vero che passa: il dolore cambia, si trasforma, ma non passa.
So che vorrei che mio padre fosse ancora qui a dirmi che starà sempre con me.


Un paio di settimane fa é morto il padre di un mio amico che si chiamava come mio padre. Questa coincidenza mi ha sempre fatto sorridere visto che si tratta di un nome non troppo comune.
Quando l'ho saputo, non sapevo cosa dirgli e gli ho mandato un messaggio con un cuore.
Ho poi parlato un po' con lui e, ad un certo punto, gli ho detto che il dolore non sarebbe passato e che da me non avrebbe sentito dire una cosa diversa da quella, anche se fa male. Perché io avrei voluto che lo dicessero a me, perché io avrei voluto saperlo ed é una cosa su cui proprio non riesco a mentire.
Questo post nasce da quello scambio di messaggi.


Continua a Leggere

mercoledì 18 dicembre 2019

Il primo Natale senza

Il primo Natale senza papà.
Non ho fatto l'albero, forse dovrei, ma non riesco a trovare la voglia.
Non ho voglia di Natale, credo.

La vigilia di Natale di qualche anno fa avevo cucinato tutto il giorno.
Papà seduto sulla sua poltrona in cucina, intento a giocare a carte -credo non abbia passato un solo giorno della sua vita senza fare il solitario con le carte da poker- e io che un po' cucinavo e un po' davo ordini ai miei aiutanti.
"Vuoi assaggiare papà?". Un po' assaggiava lui, un po' assaggiavo io, eravamo arrivati alla cena sazi.
"Mi dai un pezzo di salame?"
"Mi fai assaggiare la crema?"
"Com'è venuto il ragù?".
Così per tutto il giorno. 
Era il Natale in cui mi ero fissata con la zuppa inglese e avevamo cercato ovunque l'alchermes per poi trovarlo a cento metri da casa.

C'era poi stato quel Natale, quello in cui mi avevano tolto il frumento.
Ho sempre odiato il panettone, papà lo amava, ma quel Natale credevo di impazzire senza panettone.
Avevamo mangiato un panettone senza frumento, senza frutta a guscio, senza canditi, senza niente. Fatto di aria credo. Faceva schifo credo, come buona parte delle cose senza frumento.
"Ma no dai, è buono"
"E allora mangialo tu".

E poi c'era stato quel Natale, quello in cui mio padre aveva detto "Se non può mangiare mia figlia, non veniamo". Quella figlia così problematica, quella figlia che ha sempre guardato gli altri mangiare e che -forse per questo- ha sempre fame. 
"Ma questo Gilda lo può mangiare?"
"Possibile che ancora non hai imparato?"
 Papà che aveva imparato che a Natale non potevano esserci i bagiggi (le arachidi) e le noci, lui che aspettava Natale praticamente solo per avere la scusa di mangiarne come se piovesse e che aveva dovuto imparare a vivere senza.

E infine l'anno scorso, l'ultimo Natale, che non sapevo che sarebbe stato l'ultimo.
"Ma possibile che se non aspettiamo tua madre aspettiamo te?"
"Non so scegliere cosa mettermi"
"Tutto questo tempo e poi esci di casa così?"
Avevo un paio di pantaloni a campana e una collana che pesa più di me.
Mi ero addormentata sul divano mentre mio padre raccontava le sue storie, quelle storie che conosco a memoria e che adesso vorrei tanto sentire raccontare, ancora una volta.


Questo Natale sarà il primo Natale senza papà.
Il primo Natale senza qualcuno che mi dice "Buon Natale Bimba" appena sveglia.
Io non so se ce la faccio. Io davvero non lo so.
Ho sempre amato profondamente il Natale, mi sa di casa, di tortellini in brodo, di faraona, ma questo Natale non so se ce la faccio. 
Manca una settimana, non c'è l'albero, non ci sono le luci sul balcone, non c'è la ghirlanda sulla porta. non c'è la casa di pan di zenzero Lego.

Continua a Leggere

martedì 3 settembre 2019

Come quando c'è bisogno di tranquillità: Palermo.

Tra qualche giorno vado a Palermo.
Poco meno di una settimana fa, avevo detto che per quest'anno niente Palermo, niente vacanze, niente di niente. E, in effetti, questa è stata la mia idea costante per tutta l'estate: un'estate passata al lavoro, persino quel venerdì 16 Agosto in cui in tutta l'azienda eravamo in sei e mangiavamo melone per festeggiare -se così si può dire- l'imminente fine dell'estate.
A dire il vero, complice l'aria condizionata a palla, io quel venerdì avevo addosso persino un maglioncino di cotone, quindi per me l'estate era praticamente una cosa archiviata, sarà che non l'ho mai amata particolarmente (qui per saperne di più).

Erano tanti i motivi per cui non volevo andare a Palermo, così come erano tanti i motivi per cui non ho preso ferie: ne avevo utilizzate tante quando è morto il mio papà, mi dovrebbero servire altri giorni prossimamente per sbrigare alcune scocciature burocratiche e via dicendo.
Poi, ho ricevuto una notizia che mi ha un attimo lasciata perplessa e ho scritto un messaggio a mia madre: "Potresti dare un'occhiata ai biglietti aerei che lunedì provo a chiedere ferie?".
Ho chiesto le ferie e, un ora dopo, avevo già il mio bel biglietto aereo.


Ho scritto a due persone che non vedo l'ora di abbracciare, ho fatto la lista di quello che voglio mangiare (praticamente tutto), ho cominciato a pensare a cosa voglio fare (parrucchiere di fiducia compreso) e adesso conto i giorni.
Tutte le volte che sono arrivata a casa dei miei genitori, a Palermo, qualsiasi ora fosse, mio padre si metteva seduto con me in cucina finché non dicevo "io vado a sistemare la valigia, ci vediamo dopo".
Ho citofonato persino alle cinque di mattina e mio padre era lì in cucina a bere latte per scambiare due chiacchiere con la sua bimba prima di tornare -giustamente- a dormire.
Stavolta non lo troverò ad aspettarmi e sarà dura.
Stavolta non verrà a sedersi sul mio letto con la grazia di un elefante per controllare che io stia effettivamente dormendo.
Stavolta non avrò gelati ogni santa sera perché il gelato era un mio sacrosanto diritto.

Ci sarà dell'altro, però.
Mi aspetta la mia mamma.
Mi aspetta il mio mare, tempo permettendo.
Mi aspettano gli amici.
Mi aspetta tanto cibo.
Mi aspettano le strade della mia città che si, è vero, ho sempre detto che la mia città ormai è Roma, ma ogni volta che scendo dalle scalette dell'aereo o arrivo in Viale Regione Siciliana in macchina, mi sento davvero a casa.
Mi aspettano giorni tranquilli, notti sul mio mio letto -lo stesso di quando ero ragazzina- in una stanza bianca e gialla (poi uno si chiede perché il giallo è il mio colore preferito) per cercare di capire delle cose. Per riflettere, per prendere decisioni, per rilassarmi, per sorridere.
Continua a Leggere

domenica 28 luglio 2019

Un nuovo tatuaggio

Un mese fa ho fatto un nuovo tatuaggio.
Ne avevo già due -in barba a quel che si dice che i tatuaggi devono essere dispari- da più di un decennio, nascosti al punto giusto, tanto che erano poche le persone che mi vedono tutti i giorni che ne erano a conoscenza.

Per anni ho detto che volevo tatuarmi la lettera E sul polso, considerato che entrambi i miei genitori hanno il nome che inizia con questa lettera, ma poi per un motivo o per un altro non l'ho mai fatto.
Un giorno mi sono svegliata e ho deciso che volevo tatuarmi il nome di mio padre, sono andata da un tatuatore vicino al lavoro di cui mi avevano parlato bene e ho chiesto lumi. 
Quattro giorni dopo avevo alcune idee di disegno e cinque giorni dopo avevo il mio tatuaggio sull'avambraccio sinistro.


Mi hanno detto che è brutto per una donna avere le braccia tatuate, che non si tatuano nomi e un sacco di altre cose. E poi c'è chi mi ha detto che era un'idea bellissima.
In ogni caso, io avevo deciso e nessuno poteva farmi cambiare idea.

Ho tre tatuaggi, discreti e abbastanza nascosti (quest'ultimo a parte, sarà che estate, quindi le braccia sono scoperte).
I primi due li ho fatti di nascosto, nonostante fossi maggiorenne, perché mia madre è sempre stata -e probabilmente sempre sarà- contraria ai tatuaggi.
A dire il vero mia madre è contraria anche ai piercing. Ne ho tre, fatti di nascosto anche quelli: uno all'ombelico, uno al labbro inferiore e uno -il più bello- alla lingua. Da almeno cinque anni mi sento ripetere a cadenza regolare che sono vecchia ormai e dovrei toglierli, ovviamente non ci penso nemmeno.

In ogni caso, quando ho deciso che avrei fatto questo tatuaggio, l'ho detto a mia madre, cercando di renderla partecipe sulla scelta del font.


Mi ha detto: "Invece di farti un tatuaggio, mettiti un brillantino sul dente".
Ora, immaginate la scena: io tutta contenta con le bozze della scritta che volevo tatuarmi e lei mi risponde di mettermi un brillantino sul dente. Che poi, a diciotto anni, avevo anche quello e mi piaceva da morire, ora non so se lo rifarei.
Dopo averlo fatto le ho mandato la foto, il giorno dopo mi ha chiesto "come va il tatuaggio?" mentre io lo incremavo e lo avvolgevo nella pellicola protettiva. 
"Dai mamma, ammettilo, ti piace"
"No".
Quarant'anni di onorata carriera come docente in un liceo e mia madre ancora oggi schifa piercing e tatuaggi, nonostante abbia visto veramente qualsiasi cosa.

Ho sempre pensato che i tatuaggi dovessero avere un significato: i due tatuaggi anni novanta (così sono stati definiti dal tatuatore) hanno un significato ben preciso, mi ricordano momenti -uno bello e uno no- che hanno significato qualcosa. Il periodo e le persone a cui in qualche modo erano legati sono solo lontani ricordi, molto sbiaditi, eppure non me ne sono mai pentita.


Di questo dubito che mi pentirò mai.

Il tatuatore si chiama Alessio Orazi, in arte Gosu, e lo trovate qui.
Continua a Leggere

domenica 12 maggio 2019

Mi manca il mio papà

Mi manca il mio papà.
Lo dico così senza giri di parole, così come quando -senza giri di parole- avevo raccontato del giorno che è morto mio padre (qui).

Un paio di giorni non sono stata bene, ero a cena fuori e improvvisamente qualcosa è andato a nero.
Ne parlavo con mia madre che mi ha ricordato che una cosa del genere mi era già successa anni fa: avevo vent'anni, stavo andando all'università, fuori città, e in macchina non ero stata bene. Barre nel cervello, poi nero, nessun cartello.
I miei genitori mi avevano raggiunta, mio padre era rimasto con me per permettermi di seguire la lezione, mi aveva aspettata per ore, poi mi aveva riportata a casa. 
Avevo dimenticato questa storia, poi mi è tornata alla mente al punto che sono riuscita a ricordare dettagli che erano sepolti chissà dove.
Mi manca tanto il mio papà, così tanto che ci sono momenti in cui non riesco a pensare ad altro.
Mi capita di essere in macchina, seduta dal lato passeggero, e rivedere in chi guida cose che faceva mio padre quando mi portava in giro. 
Mi capita di prendere il telefono per mandargli un sms idiota e poi rinunciare a farlo perché tanto non lo leggerebbe nessuno.
Mi capita di guardare l'orologio la mattina e pensare: "si sarà già svegliato?".

Mi manca non potere andare al cimitero quando mi pare, credo che se potessi ci andrei ogni settimana almeno, forse ogni giorno.
Mio padre mi ha sempre portata al cimitero da mia nonna, aspettava fuori, lui non ha mai amato andare al cimitero. Io entravo, mi mettevo seduta, mi mettevo a chiacchierare con mia nonna raccontando aneddoti idioti, facevo domande a mio zio (qui per saperne di più), poi dopo un po' tornavo da papà che mi chiedeva "stanno bene?" e a cui rispondevo "ma si, mi pare di si".
Al cimitero da mia nonna ci vado ogni volta che torno a Palermo, l'ultima volta che ci sono stata è stata la prima in tanti anni in cui non mi è neanche venuto in mente di andare.
Mio padre e mia nonna sono in cimiteri diversi, una scelta che io non ho condiviso, ma che ho accettato. Mi sono chiesta tante volte, negli ultimi due mesi e mezzo, come farò a dividermi quando avrò poco tempo.
So che è stupido, so che non sono credente, so tante cose, ma mi è sempre piaciuto andare al cimitero. Mi rilassa, mi mette serenità, è una cosa a cui non credo riuscirò mai a rinunciare.
Mi metto lì e comincio a chiacchierare, credo che potrei andare avanti per ore.
Probabilmente qualcuno penserà che sono completamente pazza, ma onestamente sti cazzi.

Mio padre non mi ha mai chiesto "com'è andata a scuola?" come tutti i genitori normali, ma negli ultimi dieci anni mi ha sempre chiesto "com'è andata al lavoro?" e io ho sempre risposto "bene".
Mi ha anche sempre chiesto "ma che lavoro fai?", credo sia morto senza averlo mai veramente saputo.
Il giorno che mi hanno telefonato per dirmi di andare a firmare il contratto nel posto in cui tuttora lavoro ero dal parrucchiere. Erano cinque anni che aspettavo di rientrare in un'azienda che ho sempre amato moltissimo: quella chiamata l'ho aspettata per due settimane, sapevo che sarebbe arrivata, ma c'era qualcosa che mi faceva dire "finché non ti chiamano per firmare non esultare".
Avevo telefonato a papà e avevo detto un paio di frasi sconnesse, lui aveva capito e piangeva.
Piangeva perché non avevo passato un bel periodo dal punto di vista lavorativo, piangeva perché io quel lavoro lo volevo tantissimo, piangeva perché io quell'azienda la volevo tantissimo, piangeva perché io rivolevo il mio capo. "Pensa ai capelli, dopo ti vengo a prendere".
Quello è stato il giorno in cui ho tagliato i miei lunghissimi capelli in un cortissimo caschetto, ho fatto le méches : mio padre mi aveva detto che sembravo un cane bracco.
"Ma sei sicura di questi capelli?"
"E tanto mica me li posso fare riattaccare".
Non ero sicura manco per niente, adesso appena crescono di due centimetri corro dal parrucchiere perché i capelli mi si impigliano sulle spalle e non posso proprio sopportarlo.
"Vestiti bene per andare a firmare questo contratto, non andare sempre in giro come una stracciona" mi aveva detto. Mi ero vestita bene in effetti.
Il primo giorno di lavoro papà mi aveva mandato qualche sms, io a quel punto non ero più vestita bene, era più in ansia lui di me.
"Ti piace? Ti piacciono i colleghi?"
"Sono sempre gli stessi a dire il vero, qualcuno in più, qualcuno in meno".
Ogni giorno, da quel giorno, mi aveva chiesto come sempre "com'è andata al lavoro?" e ogni giorno gli avevo risposto "bene" pure quando prendevo incazzature fotoniche, anche quando sbagliavamo qualcosa oppure non sbagliavamo niente e c'era lo stesso un problema.
Mio padre non sa che il giorno che mi hanno detto che stava poco bene, subito dopo è morto, io ero al lavoro e sono scoppiata in un pianto disperato.
Non sa neanche che il mio capo mi ha detto di andarmene a casa e di prendere il primo aereo disponibile.
Non sa che ho pianto tutte le mie lacrime seduta alla mia scrivania -una scrivania piena di unicorni e altre amenità- con il mio capo che mi diceva "non ti voglio vedere così".
Non sa che ho spento il pc, per la prima volta in vita mia, lasciando a metà quello che stavo facendo, io che piuttosto chiedo ai servizi generali di portarmi una brandina, ma non lascio a metà proprio niente.
Non sa che ho timbrato l'uscita e non mi sono fermata a salutare nessuno come faccio di solito.
Non sa neanche che sono uscita da lì che avevo un papà e che ci sono rientrata dopo due settimane che un papà non ce l'avevo più.
Non sa che tra le prime persone che ho chiamato ci sono due mie colleghi e ci sono i miei capi.
Non sa neanche che il giorno che sono tornata al lavoro ho ricacciato indietro le lacrime per tutta la giornata, che ho preso tanti abbracci e tante parole che mi hanno fatto sentire meglio.
Mi manca il mio papà e queste cose gliele avrei volute raccontare, ma non posso farlo.


Dicono che prima o poi si riesca a farsene una ragione, io adesso non lo so se sarà davvero così, presumo di si, adesso mi manca solo tanto il mio papà.


Nb. Sono settimane che vorrei scrivere questo post, l'ho sempre iniziato e non l'ho mai finito, non ho tenuto neanche tutte le bozze perché non mi convincevano. Non mi succede mai: io di solito scrivo di getto, quando sono ispirata, e vado come un treno. Oggi è venuto fuori questo post che forse non è il miglior post del mondo, ma a volte va così.
Continua a Leggere

mercoledì 13 marzo 2019

Come stai? Come ti senti?

La domanda che mi viene fatta più spesso ultimamente è "Come stai?", seguita a ruota dalla domanda "Come ti senti?".
Non c'è una risposta, non sto e non mi sento in nessun modo.

Ho sempre detto di essere una persona fortunata e mai questa affermazione è vera come in questo periodo: nessuno mi ha mollata un attimo e io ho lasciato che mi coccolassero e che non mi lasciassero mai sola.
Ho un marito, dei cugini, degli amici e dei colleghi eccezionali, ma questo l'ho sempre saputo, semplicemente adesso lo so un po' più di prima.
Sono rientrata al lavoro, ho ripreso ad andare in palestra, ho finito di sistemare casa nuova, ho sbrigato cose burocratiche di cui avrei volentieri fatto a meno, sto riprendendo piano piano a scrivere sul blog.

Il giorno che sono rientrata al lavoro ho trovato delle etichette su tutte le cose che ho sulla scrivania, quella che mi ha fatto ridere più di tutte è stata l'etichetta con scritto foglio appiccicata sul foglio che indica l'impaginazione settimanale dei promo dei palinsesti.
Ho una Minni di Lego sulla scrivania che ho trovato spostata e mutilata. Ho riso, ho cercato i pezzi mancanti che erano finiti dentro al passacavi, l'ho ricomposta e rimessa al suo posto.


Mi manca il mio papà e questo è un pensiero fisso.
Ecco perché non sto e non mi sento in nessun modo.
A questa mancanza non posso fare nulla, ho sempre cercato una soluzione a qualsiasi problema mi si presentasse davanti, ma stavolta una soluzione non c'è.
Mi hanno detto che tra un paio di mesi sarà peggio perché realizzerò davvero, poi piano piano andrà meglio. Non so se sarà davvero così, posso solo aspettare e vedere come andrà.
Mi sono chiesa chi sarà il primo a farmi gli auguri di buon compleanno, di solito è sempre stato mio padre, quest'anno presumo sarà il cane che tanto non si stacca da me un attimo.
Ho scritto un sms per mio padre un paio di sere fa, poi mi sono ricordata che non lo avrebbe letto nessuno e non l'ho inviato.

Mi hanno anche chiesto come sta mia madre.
Mia madre è una donna forte, molto forte, che nella sua vita ne ha viste di ogni.
Ha anche un sacco di cose da fare e un sacco di amici, mio padre la chiamava la presidentessa e affermava di avere diritto ad uno stipendio visto che, di fatto, le faceva da segretario e autista.

Insomma, va così: non sto e non mi sento, ma apprezzo -e tanto anche- chi sta facendo il possibile, e anche l'impossibile, per regalarmi un sorriso.

Continua a Leggere

domenica 10 marzo 2019

Il giorno che è morto mio padre

Il giorno che è morto mio padre è stato il giorno più doloroso della mia vita.
Ve lo dico così, senza giri di parole.
Non credevo potesse esistere un dolore così grande, non credevo che questo giorno sarebbe mai arrivato, non credevo così tante cose che non so neanche da che parte cominciare ad elencarle.

Mi hanno raccontato di una me in preda ad una crisi isterica seduta per terra che abbracciava la bara di chi mi ha dato la vita e che un po' piangeva e un po' strillava.
Ho dei ricordi abbastanza confusi, ma so benissimo che ero in preda alla disperazione più nera, mista a quel senso di colpa che tutti abbiamo quando muore qualcuno che amiamo immensamente e per cui vorremmo avere fatto qualcosa di più o forse qualcosa di meno, sicuramente qualcosa di diverso.
Mio padre stava bene: era cardiopatico da quindici anni, tanti acciacchi dovuti ad un fisico bistrattato da un lavoro impegnativo che amava da morire, ma stava bene.
Se n'è andato un sabato mattina cogliendomi completamente impreparata di fronte ad una cosa del genere.
Se ho una certezza è quella che l'ultimo pensiero di mio padre sono stata io, quella figlia così tremendamente antipatica che ultimamente stava attraversando un periodo complesso.
Quel periodo complesso è diventato improvvisamente il nulla cosmico nel momento in cui mia madre ha pronunciato quelle parole che mai -credo- avrebbe voluto dirmi: "Gilda, papà non c'è più".

Ho firmato carte, scelto la chiesa per il funerale, sono stata benedetta dal prete.
Mi è stato chiesto di dire qualcosa in chiesa, il diacono che ha celebrato la messa mi ha detto che non ama chi ricorda i defunti tessendone le lodi.
Ho detto che mio padre era un rompiscatole, che mi chiamava alle tre di notte per chiedermi dove fossi e sottolineando che forse era il caso di rientrare a casa.
Non ho un orario di rientro da quindici anni, vivo da sola da dodici, eppure mio padre mi chiamava per dirmi che era tardi e dovevo tornare a casa. Di solito lo mandavo a quel paese.
Ho anche detto che mio padre mi amava da morire, ma non ho detto che è stato il miglior padre del mondo perché non lo è stato, così come io non sono stata -e mai sarò- la figlia perfetta.
Mio padre chiedeva sempre a mia madre: "Ma da chi ha preso sto carattere di merda tua figlia?" e lei rispondeva: "Da te". È vero: mio padre mandava a fanculo la giuria dell'ippodromo e io ho sempre mandato a fanculo i professori a scuola, entrambi con l'arrogante certezza di sapere il fatto nostro.

Vorrei raccontare tante cose, potrei iniziare da quella malsana abitudine di farci le punture da soli: da qualche anno mio padre si fidava a farsi fare le punture da me e da nessun altro, così come io -prima di imparare a farle e a farmele- me le lasciavo fare solo da lui.
Mio padre che mi comprava il gelato sempre nella stessa gelateria dall'altra parte della città e che si arrabbiava con mia madre se gli diceva che non era necessario che io avessi il gelato ogni santa sera.
Mio padre che mi chiedeva sempre se avessi bisogno di soldi e quando rispondevo di no mi allungava comunque qualcosa perché non si sa mai.
Mio padre che mi dava i soldi per il pane e mi diceva di tenere il resto, nonostante avessi superato i trent'anni.
Mio padre la cui domanda più ricorrente era: "Ma questo Gilda lo può mangiare?" e che ha sfondato -letteralmente- la porta del pronto soccorso quando -era il 2006- la sua unica figlia stava per morire e gli infermieri prendevano tempo.
Mio padre che ha sempre amato mangiare, che ha visto sua figlia poter mangiare sempre meno cose negli anni e che mangiava spaghetti di soia perché la sua bambina non poteva mangiare la pasta di frumento come tutti gli altri.
Mio padre che, da quando esistono i cellulari, mi ha sempre mandato un sms la mattina con scritto "buongiorno bimba" e uno la sera con scritto "buonanotte bimba" con in mezzo decine di messaggi con scritto "che fai bimba?", che mi chiamava sempre al momento sbagliato per dirmi "ti volevo salutare" e che si lamentava che non gli raccontavo mai niente: "guarda che quella sera c'ero anche io" mi diceva almeno tre volte al giorno.
Mio padre che prima di ogni partita della Roma mi scriveva "spegni tutte le luci e abbassa le serrande, avete già iniziato il silenzio stampa?" e che mi chiedeva di scrivergli un sms ad ogni gol.
Mio padre che mi accompagnava ovunque, a trent'anni suonati, dovendosi sorbire le lamentele di mia madre: "Ci può andare anche da sola, ha la patente" alle quali rispondeva: "È mia figlia e la accompagno io" perché lui sapeva che odio guidare, odio cercare parcheggio, odio il traffico. Lo sapeva dal giorno del mio diciottesimo compleanno quando, qualche ora prima della festa, mi aveva portata di peso a scuola guida e mi ci aveva iscritto.
Mio padre che mi ha comprato il motorino, lo Scarabeo, senza dire niente a mia madre: avevo quindici anni e credo che lei lo abbia insultato per questo fino a un mese fa.
Mio padre che quando avevo vent'anni mi faceva fumare in macchina e diceva sempre "non dire niente a mamma che poi se la prende con me".
Mio padre che aveva una cicatrice sul braccio dovuta ad un mio morso dato il giorno che mi avevano fatto una medicazione dolorosissima a ventidue anni e io avevo voluto disperatamente che lui entrasse con me perché avevo paura.
Mio padre che il giorno della mia laurea piangeva e che, quando gli avevo detto che mi sposavo, aveva solo detto: "Ma mi devo mettere la cravatta?". Non l'aveva messa la cravatta, non l'aveva neanche il giorno del suo matrimonio.
Mio padre che qualche giorno prima che mi sposassi scriveva sms al Marito per dirgli: "Non te la sposare, è una rompicoglioni".
Mio padre che quando la gente lo fermava per strada mi guardava e mi chiedeva: :"Ma chi è?".
Mio padre a cui chiedevano gli autografi e che amava profondamente il suo lavoro.
Mio padre che mi ha fatta crescere in mezzo ai cavalli e che le mattine d'estate mi portava con lui a fare prove alle quattro e mezza di mattina. Qualche anno fa, io e mio padre eravamo poggiati sulla ringhiera dell'ingresso pista dell'ippodromo di Palermo, c'era il Gran Premio del Mediterraneo: "Papà vince quello che sta girando di fuori" gli avevo detto.
"Che cazzo dici cogliona, non capisci niente" mi aveva risposto, perché questo era mio padre.


Il giorno che è morto mio padre era il 2 Marzo 2019 , otto giorni fa.
Un articolo che è uscito qualche ora dopo la sua morte recita così"Si è spento all’età di settantacinque anni, per sopravvenuto arresto cardiocircolatorio, Ezio Serafini, popolare driver ippico degli anni d’oro del trotto siciliano, da tempo fuori dalla scena e dalla attività appunto per motivi di salute. Trevigiano di nascita, era figlio di Ernesto, grande maestro delle redini lunghe, stabilitosi, fine anni sessanta, con tutta la famiglia in Sicilia per allenare e guidare, all’epoca, i cavalli delle mitiche e gloriose Scuderia Atlas e della Scuderia Manatthan, entrambi di proprietà della famiglia Guttadauro, titolare peraltro di una imponente azienda agricolo-alimentare per l’esportazione degli agrumi in tutta Europa. Leggendari i nomi dei cavalli passati sotto allenamento a papà Ernesto ed al figlio Ezio: Quintilio, Cuper, Boomerang, Maracaibo, per citare i più rappresentativi. Morto Ernesto, la dirigenza tecnica della scuderia passò ad Ezio, che si contornò sempre di ottimi proprietari e di altrettanti ottimi cavalli, ricordiamo Pennar, Arpione, Cadaval, Arezzo, per citarne alcuni di una interminabile lista.
Figlio di papà, Ezio era solito frequentare la Palermo bene degli anni d’oro dell’isola ed era per questo che contribuì a fare appassionare tanti validi e ricchi imprenditori che non lesinarono acquistare ed affidargli ottimi soggetti.
Alla moglie ed alla figlia Gilda le più sentite condoglianze per la triste perdita".



Non scrivetemi condoglianze, non fatelo. 
Non mi piace la parola condoglianze e non piaceva manco a mio padre.
Qui trovate i miei ringraziamenti per tutto l'amore ricevuto.

Per la foto di un giovanissimo mio padre ringrazio Giuseppe Mangano e la pagina Facebook Riaprire l'ippodromo di Palermo.
Continua a Leggere

mercoledì 17 gennaio 2018

Perché la mamma è sempre la mamma

La mamma è sempre la mamma diceva qualcuno, non so chi.
Anche il papà, eh, ma la mamma ha quel qualcosa in più, non saprei neanche come spiegarlo.

Mia madre è una generalessa. É cattivissima, severissima ed è anche pesante da sopportare, eh.
Io ho frequentato il liceo dove insegnava mia mamma, mai scelta fu più sbagliata perché se solo avessi scelto una qualsiasi altra scuola sarei andata avanti senza subire le cose peggiori.
Praticamente per non fare pensare a nessuno che io venissi trattata meglio degli altri, ero trattata peggio. Il ragionamento non fa una piega, insomma.
La mia fortuna è stata solo una: studiavo e tanto anche, andavo bene in tutte le materie, tranne matematica (dove comunque avevo un sei perché facevo pena alla professoressa) e buonanotte al secchio.
In ogni caso, io mi sono beccata due sospensioni a scuola, una di tre giorni e una di cinque, tanto che ancora adesso mia madre si chiede se io non avessi ammazzato il preside.
La risposta comunque è no, non l'avevo ammazzato, il motivo era un altro (qui per saperne di più) però ecco lui non andava molto d'accordo con la mia amata madre, diciamo così.
Ho accettato, sopportato e odiato profondamente la scuola.
Tutta sta pappardella per dire che mia madre mi controllava a vista, a me non era concesso neanche un ritardo di cinque minuti (si, andavo a scuola per i fatti miei), non mi era concesso di prendere un cinque e non mi erano concesse neanche un sacco di altre cose.
Io, ad esempio, non potevo dormire dalle amiche. A diciassette anni, eh, non a dodici.
Il motorino me lo ha comprato mio padre, quel sant'uomo, di nascosto da mia madre (che ovviamente lo ha scoperto subito e che ha anche pagato il primo pieno di benzina), ma in ogni caso entro una certa ora -prima di cena ovviamente- io dovevo tornare a casa, sia mai che al calar del buio fossi fuori casa su due ruote.

Fatta questa doverosa premessa, immagino sia chiaro che mia madre non è stata una madre troppo permissiva, che mi ha viziata, che mi ha messo su un piedistallo e via dicendo.
Io da ragazzina dubitavo persino che mi volesse bene, eh. Ero abbastanza convinta che le stessi antipatica, cosa per altro plausibile visto che simpatica non lo sono mai stata.
Mia madre, in realtà, mi ama profondamente. E io amo lei, è una figura importantissima, forse la più importante, io non potrei vivere senza mia madre.
La mamma è sempre la mamma, ve l'ho detto.


Io ho più di trent'anni, sono donna e moglie, lavoro, ho una casa e un sacco di responsabilità, ma sono anche figlia. Una figlia che ama profondamente i suoi genitori, anche se non lo dice poi così spesso.Una figlia che ha bisogna della sua mamma. E anche del suo papà, eh.
Mia madre risponde al telefono H24, anche a notte fonda, che siano telefonate o messaggi.
A mia madre devo la forza e il coraggio che mi trasmette e devo la tranquillità con cui reagisce alle foto che le mando dal pronto soccorso in piena notte.
Lei ci prova a stare calma per me. E per mio padre.
Mia madre è quella che, quando mi hanno ricoverato per l'appendicite a Bologna, ha preso un treno di corsa, ha viaggiato tutta la notte e la mattina dopo era lì con me a tenermi la mano (e le flebo).
Mia madre è la persona che ho chiamato, pregandola e supplicandola di venire (insieme a mio padre, eh) a Roma e passare con me quello che credevo sarebbe stato il mio ultimo Natale (qui per saperne di più).
Mia madre mi compra ancora i vestiti, visto che io non sono in grado, né tanto meno ho voglia, di farlo (qui per saperne di più).
Mia madre mi fa i bonifici con causale contributo mamma a caso. Perché così non spendo i miei soldi oppure perché così mi compro un cappotto decente, basta che non sia corto.
Mia madre mi ordina su Aliexpress i vestiti anni '50.
Mia madre ha sempre la parola giusta, non si stanca mai, non sta mai male (e anche se sta male, fa finta di niente), mette me prima di qualsiasi altra cosa.
Mia madre mi rimprovera, mi chiede dove vado e a che ora torno (quello però è più mio padre, ad onor del vero), mi dice di mangiare.
Mia madre non mangia la Nutella da quasi vent'anni (qui per saperne di più).
Mia madre non ha ancora capito che lavoro faccio esattamente, ma è comunque molto orgogliosa di me.
Mia madre coccola me e anche il Marito. E io le dico sempre che sono io la figlia, deve dedicarsi a me e solo a me, mica al Marito. E lei gli dice che non deve darmi retta.
Mia madre e il Marito si coalizzano contro di me, lo hanno fatto anche due sere fa, io ovviamente li ho mandati a quel paese entrambi, ma so che come mi amano loro non mi ama nessuno.
Mia madre è la madre che un giorno vorrei essere se mai farò un figlio. Perché la mamma è sempre la mamma, ve l'ho detto.


Continua a Leggere

giovedì 8 giugno 2017

Tutti potremmo dimenticare nostro figlio in macchina

Non ho figli. Al momento non ne voglio, non sono pronta e non so se lo sarò mai.
Mio marito, da un po' di tempo a questa parte, dice che, se mai avremo un figlio, sente che sarà una femmina. Dice anche lo stuzzica l'idea della femmina. Credo che sarebbe un buon padre, molto migliore di me come madre.
Sono spesso stanca. Altrettanto spesso vado di corsa, ci sono periodi che non mi fermo mai. A volte i pensieri mi tormentano. In quei momenti vorrei solo dormire, ma non posso.
Segno tutto sul calendario: le scadenze, gli appuntamenti, le visite mediche. Il calendario è davanti al frigorifero, quindi non posso non vederlo: ogni volta che bevo un po' d'acqua o preparo da mangiare, lui è lì a ricordarmi cosa devo fare.
Eppure mi dimentico tante cose: dimentico quello che mi dice il Marito, dimentico di comprare qualcosa, dimentico di chiamare qualcuno, perdo il burro cacao e la pinza per i capelli. Me ne ricordo improvvisamente dopo ore, ho come un'illuminazione. A volte mi sento in colpa per quello che dimentico, altre no.
Anche il Marito a volte è stanco e anche lui dimentica qualcosa.
Cerchiamo di ricordarci a vicenda le cose.
Una volta abbiamo dimenticato il cane: tornavamo da una passeggiata con i nostri due cani, siamo entrati in casa sia io che lui, uno dei due cani è entrato con noi e l'altro no. Dopo un po' ci siamo resi conto che mancava, ci guardavamo intorno, la chiamavamo, ma non arrivava. Abbiamo aperto la porta di casa e l'abbiamo trovata sul tappeto davanti la porta, sdraiata, che aspettava soltanto che qualcuno si ricordasse di lei. L'abbiamo coccolata, ci siamo sentiti in colpa, non siamo riusciti a capire come fosse stato possibile che noi tre fossimo entrati e lei fosse rimasta fuori e ancora oggi che lei non c'è più a volte ricordiamo quell'episodio e ci chiediamo come sia potuto succedere.
La verità è che può succedere di dimenticarsi qualcosa. Si, può succedere anche di dimenticarsi un figlio, così come noi ci siamo dimenticati il cane.
Voi direte che un cane non è figlio, io vi rispondo che lei era la mia vita e che il principio per le quali ci sono donne e uomini che dimenticano in auto i loro figli è lo stesso identico per cui io e Marito abbiamo dimenticato il cane fuori dalla porta.
Succede. Non dovrebbe succedere, ma succede.
Succede che la mente si offuschi. Li chiamano eventi dissociativi o disconnessioni mentali, io non ho idea di quale sia la corretta definizione medica per questo fenomeno, ma so che succede.
Ed è tremendo, è atroce, è una cosa pazzesca, ma succede.
E io non riesco a condannare questi genitori. Non riesco neppure lontanamente ad immaginare come ci si possa sentire quando ti dimentichi tuo figlio, il tuo bambino, che magari hai disperatamente voluto, cercato e quel fagottino muore. 


Non posso immaginare il dolore dei due genitori e i sensi di colpa di chi dei due ha avuto quella dimenticanza fatale.
Non voglio neppure immaginare quanto possa essere atroce morire di caldo dentro una macchina, magari sotto al sole rovente di Agosto, non lo voglio sapere, voglio tenere la testa sotto la sabbia. 
Non riesco a giudicare, non riesco a dire "Aame non succederebbe mai" e non solo perché non ho un figlio. Semplicemente non posso escludere che una cosa del genere, se avessi un frugoletto, possa capitare a me. O a mio marito che sono convinta sarebbe un padre meraviglioso.
So che non ho più vent'anni, che cerco di incastrare tutto, che corro, che ho tanti pensieri. E so anche che a volte dimentico qualcosa.
Ve lo ricordate com'era avere vent'anni? Io dormivo poco, facevo tante cose, lavoravo, studiavo, uscivo e non dimenticavo praticamente niente. Poi non so cosa sia successo.
So che ogni giorno faccio tantissimi gesti automatici, a cui non penso neppure. Li faccio e basta. E so che forse, se avessi un figlio, diventerebbe un gesto automatico anche metterlo in macchina la mattina, accompagnarlo all'asilo, andare a lavoro, poi andare a riprenderlo e così via in una successione automatica di gesti.
So che a volte uno di questi gesti automatici sfugge. E potrebbe essere una tragedia immensa.
A volte la tragedia viene evitata, altre volte no. E quando non viene evitata, credo che l'unica cosa da fare sia rimanere in silenzio e non dire mai: "A me non sarebbe successo", perché credetemi che è un attimo. E quell'attimo potrebbe bastare.
Continua a Leggere

venerdì 19 maggio 2017

Quell'amore di un genitore per i figli

I mobili della mia cameretta, quella in cui ho dormito ogni notte fino a vent'anni, sono bianchi e gialli. Il giallo è esattamente quel giallo limone che mi piace da morire.
Chiamarla cameretta è un po' riduttivo se consideriamo che è grande quasi quanto casa mia a Roma, ma fa tanto bambina e adolescente che non me la sento di chiamarla in modo diverso.
E' rimasta praticamente identica negli anni con sopra il letto una foto gigante di una me diecimesenne appena dimessa dall'ospedale dopo una combo micidiale di pertosse e gastroenterite, l'angolo destinato alla mia collezione di mucche provenienti da tutto il mondo, accrediti di festival cinematografici, le scatole contenenti le letterine che ricevevo da ragazzina dalle amiche di penna sparse per l'Italia e non solo. Armadi e cassetti sono vuoti, fatta eccezione per qualcosa che non metterei più neppure dopo morta, ma che mi ostino a voler conservare per motivi che francamente ignoro persino io.
La mia è la prima camera da letto che si incontra percorrendo il lungo corridoio, le altre sono in fondo e questa cosa non mi piace. Se per questo, non mi piace neppure che la mia sia l'unica camera da letto senza un balcone, c'è solo una finestra che prende tutta una parete e dalla quale, se ti affacci, vedi il mare e le montagne.
Mi addormento con la porta socchiusa, quando dormo nella mia cameretta, mi fa sentire più protetta, nonostante per anni, da brava figlia unica, io abbia dormito solo ed unicamente da sola. Non sono più abituata a farlo e non mi piace non sentire nessuno intorno.
Vado quasi sempre a letto prima dei miei genitori che rimangono a guardare la tv sulle loro poltrone, a volte sento i loro discorsi e intervengo strillando. Loro ridono, non si capacitano di come, nonostante la distanza tra una stanza e l'altra e la tv accesa io riesca a captare ogni singola parola. Non lo so neppure io, a dire il vero. 
Quando mia madre va a letto, passa dalla mia camera, mi sistema le coperte, mi da un bacio e mi dice buonanotte. A volte dormo già, a volte no, ma anche se non la sento sono sicura di questo suo gesto.
La sento che dice a mio padre di abbassare il volume della televisione altrimenti la piccolina non riesce a dormire. Se sono sveglia ripassare a chiedermi se mi da fastidio il volume delle chiacchiere, come chiamo io quei programmi in cui non fanno altro che chiacchierare del nulla e che a mio padre piacciono tanto.
Quando mio padre va a letto, passa anche lui, controlla che la piccolina stia dormendo. Se non dormo mi dice buonanotte, se dormo già lo dice lo stesso e a volte mi sveglio perché parla ad alta voce (d qualcuno avrò pur preso).
So che mia madre, se si sveglia durante la notte per un qualsiasi motivo, viene a controllare che sia tutto ok, che io stia dormendo, che non mi sia scoperta, che la gatta cattiva non mi abbia aggredito nel sonno, cosa di cui sarebbe assolutamente capace.
So anche che quando si alza definitivamente, la mattina dopo, chiude la mia porta per evitare che i rumori mi disturbino e la riapre solo per svegliarmi o se il gatto, quello buono, vuole venire da me.
Il gatto buono si chiama Remo, è romano e soprattutto è il mio gatto. Lui sa che io sono la sua vera mamma umana. A volte dorme sul mio letto, altre volte si sdraia su una sedia o su un pouf della mia cameretta e sta lì con me, forse si preoccupa anche lui che io dorma bene.
La gatta cattiva invece dorme sotto il mio letto, convinta di non essere vista. Lei sa che nè io nè Remo la vediamo di buon occhio e noi sappiamo che lei in realtà ci detesta entrambi perché deve dividere con noi l'amore dei miei genitori.


Da nessuna parte al mondo, dormo bene come nel mio letto, lì nella mia cameretta palermitana, nonostante siano dieci anni che io quella cameretta l'ho abbandonata.
E si, i miei genitori vegliano sul mio sonno, si preoccupano per me come se non avessi trentuno anni, un marito ed una casa perché una figlia è pur sempre una figlia e la si vede piccola e indifesa anche quando cresce. E finché ci saranno loro ad amarmi così, non avrò paura di niente.



Continua a Leggere

mercoledì 19 aprile 2017

Genitori Vs figli quindicenni e Vs figli trentenni

A quindici anni:
"Papà va bene, accompagnami tu, ma mi lasci almeno 100 metri prima che non posso di certo fare vedere che arrivo con un vecchio"
A trenta:
"Papi, potresti avvicinarti ancora un po' all'entrata che non ho voglia di fare strada a piedi? O meglio, potresti direttamente entrare dentro al locale con la macchina per favore?

A quindici anni:
"Papà, le 2 è troppo presto, tutti i miei amici tornano a casa non prima delle 3 e non ti preoccupare che ho chi mi accompagna. Certo, è il papà dell'amica, ci mancherebbe che torno a casa con un neo patentato"
A trenta:
"Papi, potresti venirmi a prendere alle 23.30? Per favore non fare tardi. Anzi, facciamo 23,15 va. Se arrivi prima chiamami così torniamo a casa ancora più presto".

A quindici anni:
"Voglio essere autonoma e indipendente, esco con il mio motorino, non ho bisogno di nessuno io"
A trenta:
"Si lo so che ho la patente da quasi quindici anni e una macchina nuova fiammante, ma fare prima seconda mi mette di cattivo umore, quindi preferisco fare il (tuo) passeggero"

A quindici anni:
"Certo che stasera esco, è sabato, perché dovrei stare a casa come i vecchi?"
A trenta:
"Si lo so che è sabato, ma perché dovrei uscire? Sul mio divano si sta così bene. E poi metti che prendo freddo e mi viene il cagotto?"

A quindici anni:
"Mamma, io voglio uscire con le mie amiche a fare shopping, non con te"
A trenta:
"Mami, mi accompagneresti a provare quel vestito che ho visto in quel negozio? Mi fido solo del tuo parere"

A quindici anni:
"Mamma, ho bisogno di vestiti nuovi, non ho niente da mettere. Le mie amiche hanno tutte dei bellissimi vestiti e io solo stracci"
A trenta:
"Mamma, grazie per avermi comprato dei vestiti nuovi, ma dici che quella maglia che adoro ha i buchi? Non ci avevo fatto caso"

A quindici anni:
"Sono perfettamente in grado di badare a me stessa se andate via qualche giorno, datemi fiducia"
A trenta:
"Mamma, perché il mio bucato non è pulito e profumato come il tuo? E perché la mia salsa di pomodoro non ha lo stesso sapore della tua? E' un complotto contro di me?"

A quindici anni:
"Non vedo l'ora di diventare maggiorenne per andarmene di casa"
A trenta:
"Certo che non sarebbe male vivere ancora con voi"


A quindici anni (brutto, ma vero):
"Mamma, papà, vi odio"
A trenta:
"Mamma, Papà vi amo: siete la cosa più bella mia vita".

Continua a Leggere

venerdì 3 marzo 2017

Piccole cose che trasformano una giornata normale in una bella giornata

Ieri mattina mi è arrivato un messaggio bellissimo.
Mia madre mi ha scritto che mi avrebbe fatto una sorpresa. 
Io non sono il tipo di persona che può mettersi ad aspettare una sorpresa, l'ho chiamata subito e le ho detto: "Dichiarare sorpresa".
Al lavoro non rispondo mai al cellulare e difficilmente guardo i messaggi. Lei questo lo sa.
"Scusa, ma tu non sei quella che non guarda mai il telefono al lavoro?"
"Il tuo messaggio è arrivato proprio nel momento in cui stavo facendo dieci minuti di pausa"
Ho una madre che arriva sempre al momento giusto, insomma.
"Ti passo papà"
"Ciao papà"
"Mamma viene a Roma, così sta un po' con te"
Mi sono scese le lacrime e non riuscivo a parlare.
E io so che è una cosa piccola piccola, ma non vedo i miei genitori da mesi, il tempo passa e io so che non sono eterni. E poi a me piace passare del tempo con loro. 
Dico sempre a mia madre che sarebbe bellissimo abitare nella stessa città, passerei sempre a trovarli e tante cose sarebbero più semplici, ma sappiamo tutti che non è possibile.
A casa nostra, io sono spesso sola a cena, causa lavoro del Fidanzato. Mi piace immaginare che se vivessi vicina ai miei, qualche volta potrei andare da loro, anche perché -ecco- mia madre cucina sicuramente molto meglio di me. 
E poi sa cucinare i carciofi in almeno centro modi diversi, mentre io mi fermo allo step in cui fisso i carciofi dal fruttivendolo e penso che bisognerebbe quanto meno prima pulirli, ci sono le spine, le spine pungono, se mi pungo sanguino, se sanguino Fidanzato sviene, se lui sviene il cane si agita e quindi, insomma, niente carciofi.
Mi piace immaginare, a volte, di poter avere la mia mamma pronta a tenermi la mano quando sto male. Non sempre è possibile, purtroppo.


Quindi a Roma troverò non solo il Fidanzato ad aspettarmi, ma anche la mamma.
Per vedere entrambi i genitori insieme mi tocca aspettare ancora un pochino, ma io sono paziente.
La mamma porterà del cibo, tanto cibo. E le stampelle che tutti si sono passati: le ha usate lei e le ha usate anche Fidanzato. Pareva effettivamente brutto che non le usassi anche io, no? 
Come sempre, quasi guarita da una cosa -si, mi porto ancora dietro gli infiniti problemi all' apparato digerente- me n' è venuta un' altra.
Ho spaccato un ginocchio e ancora in giro si chiedono come ho fatto visto che io non ne ho memoria. Alle domande ho risposto qualcosa tipo: "un giorno non mi faceva male e il giorno dopo si"
"Ma hai fatto qualcosa? Hai sbattuto? Sei caduta?"
"No, me lo ricorderei"
E quindi mi tengo il ginocchio spaccato -lo curo, mi ha vista il medico e mi rivedrà a breve, giuro- e continuo ad accettare quasi sempre il posto che i novantenni mi cedono in metro, vergognandomi come una ladra.
Io lo so che al circolo delle bocce parlano male di me. "Hai visto quella giovinotta zoppicante che manco io quando avevo ottant'anni e il femore rotto camminavo così?" avrà detto uno dei novantenni all' amico centenario. 
So anche che sentirmi parlare di continui malanni mette ansia ai più, ma sappiate che io sono abituata. Insomma, è da quando avevo 14 anni che finisco di continuo in ospedale in codice rosso, cosa volete che sia una fratturina al menisco?
Comunque, i genitori non l' hanno detto, ma tra le cose che so c' è anche quella per cui sono perfettamente al corrente del fatto che la mamma -anche conosciuta come la generalessa- viene anche a controllare il mio ginocchio, il mio apparato digerente, che mangio abbastanza, che ho i soldi per il gelato e per telefonare a casa se serve.
E insomma questa è la vita: piena di piccole cose che ci rendono felici, ci regalano un sorriso, trasformano una giornata normale in una bella giornata.


Qui e qua trovate qualcosa di interessante sul tempo passato con la mamma.
La foto del post è di Beata Lenkiewicz.

Continua a Leggere

mercoledì 16 novembre 2016

Il genitore terrone

Nella vita di un giovane del sud che vive al nord (ricordo che Roma è nord, per chi non avesse chiara la geografia terrona) ci sono due arrivi tanto attesi: quello del pacco terrone, di cui avevo parlato qui, e quello del genitore terrone.
Io sono andata via da casa a ventun' anni che praticamente ero ancora adolescente -si, sono una tardona- e mi ribellavo all'autorità genitoriale materna, chiedendo giustizia al padre permissivo e alla nonna che in una vita precedente era sicuramente avvocato difensore dei poveri nipoti vessati, quindi sono passata dalla fase "mamma sei una rompiscatole" a quella "mamma, mi manchi".
L'arrivo della mamma terrona comporta una serie di cose.
In primis, risulta necessario non fare la spesa. Mia mamma urla proprio se le facciamo trovare il frigorifero pieno perché la spesa la deve fare lei. Ci pensa lei. Fa tutto lei.
Sia mai che noi facciamo la spesa che d'altronde, si sa, non siamo capaci.
Visto che comunque i supermercati a Roma, si sa, non esistono e forse ci troveremo a comprare beni di prima necessità alla borsa nera. 
Stasera arriva mia madre, non so se si era capito.
"Non venitemi a prendere all'aeroporto, prendo il pullman"
"Ma no, veniamo a prenderti, che senso ha prendere i mezzi?"
"Io sono autosufficiente"
"Si lo sappiamo, ma veniamo a prenderti comunque".
"Venite col serbatoio della benzina vuoto che così faccio il pieno"
Potrei effettivamente prendere un tubo e succhiare la benzina, poi riporla in una tanica e conservarla per il prossimo sciopero dei benzinai. Così, per svuotare il serbatoio.
"La cena la porto io"
"Mami, ma tranquilla: prendo qualcosa al supermercato e poi domani andiamo a fare la spesa grossa"
"Sia mai, quello che porto io è meglio" (e, in effetti, come darle torto)
"Cosa porti?"
"Gli hamburger che ti piacciono tanto".
Ora, è necessaria una parentesi: gli hamburger di solito li impasto io, ho pure l'aggeggio per dargli la forma tonda e piatta, ma in effetti quelli del carnezziere (non sapete cosa è il carnezziere? Male, molto male) di fiducia palermitano sono più buoni.
"Poi?"
"Porto il pane"
"Rimacino?"
"Certo, cuore di mamma"
"Porto anche due treccine, visto che non puoi mangiare altro, e un iris con la ricotta per Fidanzato. E qualcosa per il cane che io lo so che non gli date abbastanza da mangiare".
Il cane, per la cronaca, è a dieta perchè ancora non ha smaltito i chili presi durante le vacanze estive in Sicilia. 
"Ti ho comprato la mollica che quella industriale fa schifo" (e anche qui, come darle torto).
"Mamma, posso almeno andare a comprare l'acqua?"
"Si, ma poca che poi la compro io"
Cibo a parte, ho ricevuto una serie di fotografie che ritraggono mutande, calzini, collant, leggins, trucchi vari. Regali per la bambina che, si sa, a Roma le mutande non le vendono. 
E quindi, niente: il genitore terrone si occupa del proprio pargolo anche quando questo è abbastanza cresciuto per avere a sua volta dei figli.
E poi, si sa, il genitore terrone ha sempre paura che il proprio figlio non mangi abbastanza, si preoccupa che non spenda troppi soldi, che sia abbastanza vestito (non è un segreto che io, se non comprasse i vestiti mia madre, andrei in giro sempre con gli stessi jeans strappati), che sia abbastanza in salute, che la casa sia abbastanza pulita. E niente: il figlio terrone non può fare queste cose senza la supervisione della mamma. Funziona così.
E qui, non vediamo l'ora che arrivi la mamma, che quando arriva lei, è sempre festa.


Qui la cronaca della visita di mia madre a Milano di un anno e mezzo fa.


Continua a Leggere

mercoledì 12 ottobre 2016

Il pacco terrone

Il pacco terrone è il pacco che viene inviato ai giovani del sud che si sono trasferiti al nord dai genitori. Questo pacco viene chiamato anche pacco da giù.
Roma, secondo la cartina geografica, è nord. Secondo un terrone è nord. Nella vita, tutto è relativo.
Il pacco terrone contiene generi di prima necessità, servono per sopravvivere all'eventuale carestia che potrebbe abbattersi su una città del nord e per sopperire, nel caso in cui la carestia non arrivi, alla mancanza di supermercati.
D'altronde è risaputo che al nord non ci sono supermercati. E se ci sono, sono costosi e non hanno cose buone come al sud.
A me stamattina è arrivato un pacco terrone da Palermo.
L'ho controllato, monitorato, seguito, spiato, dalla sua partenza al suo arrivo nella capitale, ieri sera.
Quando è arrivato in territorio capitolino, ho cominciato a contare i secondi che mi separavano da lui.


E stamattina, finalmente, il portiere del palazzo -che in realtà non è il portiere, ma il sostituto della portiera a cui sono molto affezionata- ha finalmente suonato per consegnarcelo.

Cosa contiene il pacco terrone? Cibo, in grandi quantità. Qualsiasi tipo di cibo.
Dolci vari per cominciare. Dovrebbe contenere soprattutto dolci al pistacchio e di mandorle, ma io sono allergica quindi niente. Altri dolci, allora. Tanti dolci, che così si possono offrire agli amici e ai conoscenti.
Io volevo anche il pupo di zucchero che é già metà Ottobre e si dovrebbe trovare, ma mia madre ha obiettato che non sarebbe arrivato intero, quindi le ho detto di comprarlo e conservarlo e che troveremo il modo di farlo arrivare.
Glielo spiegate voi ai miei genitori che io non offro proprio niente a nessuno? Che se mandano più cose di modo che io possa offrirle, le mangio comunque tutte io?
Poi ci sono i grissini, quelli grossi con il cimino del panificio. 
E la mollica, quella vera, comprata sempre al panificio, che quella industriale fa schifo.
Se state pensando che mia madre mi abbia messo nel pacco la mollica che sta dentro al pane non meritate di essere miei amici. Sanno tutti che quella non è la mollica vera. Questa è la mollica che voi chiamate pangrattato, quella é la mollica che sta dentro al pane, sono due cose diverse.
I sottoli poi non possono mancare: funghetti, carciofini, pomodori secchi, melanzane. Tutte con l'olio buono, quello di giù che si sa che l'unico olio buono è quello fatto del cugino o dallo zio che ha l'oleificio. Tutti hanno uno zio o un cugino che ha l'oleificio.
Di solito, nel pacco c'è anche l'olio dell'oleificio di cui sopra. Io di olio buono ne ho ancora quattro litri,  adesso bisogna aspettare l'olio nuovo a Novembre.
Se non sapete quando esce l'olio nuovo meritate di mangiare scondito.
E i formaggi che, si sa, i formaggi come li facciamo noi non li fa nessuno.
Immancabili le scatolette di tonno e il caffè. A Roma, d'altronde, non si trovano.
Avete mai visto del tonno in scatola e del caffè nei supermercati fuori dalla Sicilia?
E comunque, il tonno e il caffè delle marche locali sono più buoni.
Anche le capsule che vanno bene per la nostra macchinetta a marchio siculo abbiamo trovato dentro al pacco. Giusto un centinaio per non esagerare che poi dicono che siamo i soliti terroni che non si sanno regolare con le quantità.
Pacchi di pasta come se non esistesse un domani che al nord non ci sono i formati di pasta che meritano davvero di essere mangiati -tipo gli anelletti- e comunque non ci sono le marche di pasta siciliane.

Nel pacco terrone, nel caso di presenza di nipoti, si aggiungono i regali per loro. Il nipote dei miei genitori è un cane, quindi ci si regola di conseguenza: nel pacco ho trovato una quantità di bustine di bocconcini che ci basteranno fino al prossimo inverno, biscotti, bastoncini aromatizzati al bufalo di Sicilia e -udite, udite- le salviette lucida pelo canino. Di solito, c'è anche una pallina nuova, stavolta non l'ho trovata. Fuffi ha già contattato l'avvocato canino per questa grave mancanza.
Deodoranti, salviette struccanti, detergente intimo, dentifrici. Lo so che state pensando che queste cose le vendono anche qui, ma sappiate che mia madre potrebbe contraddirvi. In ogni caso, il mio detergente intimo preferito (voi non avete un detergente intimo preferito?) qui non si trova. E comunque, per citare i genitori "questi li pagano mamma e papà che voi avete già tante spese e poi qui costano meno":
Un genitore terrone che vede poco il figlio fa quello che può e comprare per lui cose di uso quotidiano da mettere dentro il pacco fa parte degli atti d'amore.
Poi ci sono i regali per la figlia: un libro, un mascara, una cipria e uno spray che fissa il trucco che, devo dire, la boccetta potrebbe essere considerata un oggetto da arredamento tanto è elegante.
Ho detto alla genitrice che secondo me c'erano troppe poche cose.
"Amore di mamma, vuoi che te ne faccio subito un altro?"
"Mamma stavo scherzando"
"Tu mandami una lista di quello che ti manca che mamma ti fa un altro pacco"
"Ma Mami, c'è un sacco di roba"
"Manda la lista"
La manderò. Intanto sappiate che il pacco terrone è una roba illegale perchè non si potrebbe spedire cibo. 
Io c'ho proprio una fissa con la legalità, ma il pacco è una cosa per cui posso fare un'eccezione.
E no, non divido niente con nessuno che già qui ho due avvoltoi che puntano al mio cibo mandato dai miei genitori dentro al mio pacco e devo tenerli a bada. 
(L'abuso dell'aggettivo possessivo mio è voluto, nel caso in cui non si capisse che è tutta roba mia).

Continua a Leggere