martedì 14 giugno 2016

Perché le amicizie finiscono?

Avevo un'amica e ora non ce l'ho più, ma lei non lo sa.
Un'amica molto amica, a dire il vero.
Un'amica che, per un anno e mezzo, mi ha telefonato tutti i giorni, tenendomi al telefono dalle due alle quattro ore per raccontarmi passo dopo passo la sua relazione immaginaria con un tizio, dettagli del pene del tizio in questione compresi. 
Ho dato consigli su richiesta, ascoltato, consolato. Per un anno e mezzo.
Nel frattempo, il cane moriva, io venivo spedita a Milano, mi dicevano che forse avevo un tumore (che poi non avevo, ma intanto ho buttato tutte le mutande), mio padre stava male, mia madre idem, Fidanzato si operava, la mia azienda vendeva tutto mettendoci in aspettativa retribuita che è un modo molto gentile per fare fuori i dipendenti mantenendo pulita la coscienza.
E io consolavo, ascoltavo, davo consigli. 
Poi c'è stato un giorno, in cui questa amica si lamentava del fatto che un parente stava morendo, che i medici avevano chiamato per dire che restavano poche ore di vita, e io consolavo, ascoltavo, davo consigli. Il parente non è morto, sta meglio di me, ma improvvisare la sua quasi morte era un modo per cercare di avvicinare il tizio che però non ne ha voluto sapere comunque. 
E io ci sono rimasta male, molto male. Pensavo che nello stesso ospedale in cui sarebbe dovuto essere ricoverato questo parente, qualche tempo fa c'era stata ricoverata una persona a noi molto cara e i medici avevano chiamato una, due, tre volte finchè non era arrivata la volta che la telefonata delle poche ore di vita era vera. E avevamo pianto.
Io forse avevo pianto di meno, ma qualcuno che amo aveva versato tante di quelle lacrime che alla fine anche il mio cuore era diventato piccolissimo. Mi sono ricordata il giorno in cui l'avevamo salutata per l'ultima volta questa persona, avevamo rollato qualche sigaretta, preso un accendino e li avevamo fatti seppellire insieme a lui perché ci sembrava una cosa sensata.
Ancora oggi, quando andiamo a trovare questa persona, rolliamo due sigarette e gliele lasciamo lì, insieme ad un accendino.
Anche se il parente non è morto, io ho continuato a consolare e ad ascoltare e intanto la mia vita è andata avanti tra questo presunto tumore che poi tumore non era, Fidanzato operato, genitori malandati, l'azienda che ha chiuso. 
E non sono mai riuscita una volta a parlare di me, a dire che avevo paura per me, per Fidanzato, per i genitori, per il lavoro, per la casa, per tutto perché si lo so, sembro così bulla che uno quasi non ci crede che a volte ho paura, ma ne avevo tanta.
Ci ho provato, eh.
"Ho questo problema"
"Eh, anche tizio ha dei problemi, per questo non mi ama perdutamente"
E via, per ore, i dettagli sul pene di questo tizio.
"Forse non è il caso di parlare sempre e soltanto di tizio"
"Ma tizio ha un pene grande"
Poi un giorno, ho smesso di rispondere al telefono. Così, dal nulla.
Perché sono fuori casa dieci ore al giorno e quando sono fuori preferisco parlare con i colleghi. O con la cassiera del supermercato o con il barista del bar sotto casa che ormai mi conosce ed è sempre gentile. O con la portiera del mio palazzo.
Quando sono a casa, invece, preferisco parlare con Fidanzato.
O con la mia amica, quella che ascolto per ore e che mi ascolta. O con il suo fidanzato che anche se stasera ci ha fatto saltare una super mega sorpresa (all'amica ovviamente) dice cose intelligenti e soprattutto non parla di peni altrui per ore. Non parla nemmeno del suo, in realtà.


E quindi, dopo un anno e mezzo di ore e ore al telefono, ho smesso di rispondere mettendo definitivamente fine all'agonia di sentire parlare di organi genitali altrui. 
Anche perché, in fondo, nemmeno le oche starnazzano all'infinito.


La foto del post è di Samira El Bouchtaoui



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domenica 5 giugno 2016

Il voto della domenica

Quando ero bambina, andavo a votare con mia nonna: mi facevano entrare con lei ed ero io a mettere la crocetta.
Ai tempi, si facevano file chilometriche per poter esercitare il proprio diritto al voto, in pratica l'intera giornata era occupata dal voto, visto che non tutta la famiglia votava nella stessa scuola.
Ho un ricordo meraviglioso di un referendum con ben dodici schede, mia nonna si era segnata su un foglietto cosa votare perché erano davvero troppe le preferenze che bisognava dare e aveva paura di dimenticarsene. Le dodici crocette le avevo messe io su sua indicazione, anzi su indicazione del foglietto che poi probabilmente si era auto distrutto.
Ad un certo punto, il presidente del seggio decise che ero troppo grande per entrare con la nonna, avrò avuto dodici anni e di conseguenza l'unica cosa da fare fu aspettare i diciotto anni.
Un'altra cosa bella delle elezioni, quando ero piccola, era che la mia scuola elementare era seggio elettorale, quindi avevamo le vacanze elettorali, la scuola si chiudeva il venerdì e riapriva il martedì e io, già a quei tempi, non amavo particolarmente svegliarmi presto per poi stare cinque ore seduta su un banco ad ascoltare le maestre.
Ho compiuto diciotto anni nell'Aprile 2004, a Maggio ho ricevuto la tessera elettorale a casa e i primi di Giugno ho votato per la prima volta. 
Il 2004 era l'anno in cui il Palermo tornò in Serie A dopo 33 anni di assenza, tutti amavano Zamparini che all'epoca non aveva ancora l'abitudine di esonerare allenatori come se non esistesse un domani, quindi tutti i palermitani andavano dicendo in giro che avrebbero votato per lui che, ovviamente, non era nemmeno candidato. 
Non ricordo per cosa si votasse in quella occasione, né tanto meno per chi ho votato io, ma ricordo che ero abbastanza eccitata all'idea di entrare dopo tanti anni nella mia vecchia scuola elementare e che provai ad andare in pellegrinaggio nella mia vecchia aula, ma me lo impedirono perché si votava nelle aule al primo piano e l'aula in questione era invece al secondo. La mia prima grande delusione da elettrice.
Ricordo che quando andai via da Palermo sfruttavo le elezioni come occasioni per tornare a casa a spese dello Stato, viaggiando nei carri bestiame altresì chiamati treni notte che dalla terraferma portavano, in sole venti ore abbondanti senza tenere conto delle cinque ore standard di ritardo, in Sicilia. L'unica condizione per viaggiare quasi gratis era portarsi dietro la tessera elettorale timbrata al ritorno.
Che fine abbia fatto la mia tessera elettorale palermitana non ne ho idea, immagino mia madre l'abbia conservata, visto che a me buttava tutto quello che mettevo da parte nel mio periodo da accumulatrice seriale, ma lei tiene una quantità di carta inutile in casa che manco negli archivi di Stato.


E comunque: a me l'idea di andare a votare la domenica è sempre piaciuta. 
Il lunedì mattina non è la stessa cosa.
Ho sempre avuto un'immagine delle elezioni un tantino fuori moda con la famiglia felice che si sveglia presto, fa colazione al bar, poi va a messa, va a votare (a piedi, sia chiaro) e infine torna a casa a pranzo per mangiare lasagne o anelletti al forno, arrosto o salsiccia (rigorosamente con il finocchietto, altrimenti che salsiccia è?) con le patate e poi dolci come se non esistesse un domani. Nel pomeriggio, tutti a seguire davanti la tv -rigorosamente sulla Rai- l'andamento delle elezioni.
Io la domenica non mi sono mai alzata presto se non costretta, non vado a messa e, a casa mia (quella che condivido con il Fidanzato, sia mai che mia madre abbia una crisi isterica leggendo) non credo sia mai stato fatto un pranzo della domenica. Non guardiamo neppure la Rai se per questo.
La verità è che stamattina mi sono svegliata alle 11, ma solo perché dovevo guardare le finali degli Europei di ginnastica artistica, ho atteso mezzogiorno, ho portato il caffè a letto al fidanzato, mi sono messa addosso le prime cose che ho trovato, abbiamo guinzagliato il cane e siamo andati a votare.
Il cane dentro l'urna non l'hanno fatto entrare, un po' come fecero con me a dodici anni quando mi impedirono di entrare con mia nonna. La storia, insomma, si ripete.
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mercoledì 1 giugno 2016

Storia di un codice rosso (mancato)

Ieri sera mi hanno portata -per l'ennesima volta- al pronto soccorso in preda ad una reazione allergica grave. GRAVE. Inspiegabile, oltre che grave.
Labbro penzoloni, edema della glottide (piccolino eh, ma io non respiravo), prurito ovunque, rossori e gonfiori diffusi.
La scelta del pronto soccorso è ricaduta sul Policlinico Umberto I°, non perché ci piace farci del male, ma perché era a 800 metri da casa della mia amica. Grande amica, una sorella, se potessi me la sposerei pure domani, ma abbiamo capito che ad entrambe piacciono gli uomini, quindi questo matrimonio non s'ha da fare direbbe qualcuno.
Ho un fidanzato e degli amici meravigliosi -scelgo bene di chi circondarmi- che hanno mollato la cena e sono corsi per portarmi in ospedale. Nel vero senso della parola: clacson, sgommate, semafori rossi.
Riferiscono che ad un certo punto piangendo ho detto:"Vi prego, non fatemi morire", ma visto che non me lo ricordo è la loro parola contro la mia.
Arriviamo al Policlinico.
Con una reazione allergica in corso si passa avanti, non ti chiedono nemmeno come ti chiami e ti soccorrono.

Iniziamo dall'infermiera con la paura di prendermi la vena. Altre fonti riferiscono che le ho detto:"Buca sta c***o di vena", ma anche questo non me lo ricordo. Dose massiccia di cortisone. Cortisone come se piovesse. Io che mi grattavo, che piano piano riprendevo a respirare, ancora con il labbro penzoloni. Niente choc anafilattico nemmeno stavolta.
Poi il suggerimento, quando ero abbastanza in grado di intendere e di volere, da parte del personale ospedaliero: "Perché non ti fai l'adrenalina?"
La mia adrenalina ovviamente che, per carità, potevo anche immolarla per una buona causa, ma in un ospedale magari sarebbe bello che ce l'aveste l'adrenalina.
"Perché , ehm, boh" ho farfugliato in preda al panico.
"Io non te la faccio, sia mai che succede qualcosa". Sono partiti corna e scongiuri: lei ci teneva a farmi sapere che non mi stava augurando nulla di brutto, è che -sai mai- può sempre succedere il peggio.
Se mi trovo ad 800 metri da un ospedale, io corro in ospedale.  Anche perché se mi auto somministro l'adrenalina, poi in ospedale ci devo andare comunque proprio perché è un farmaco estremamente delicato e comunque, così recita il mio piano terapeutico.
E si che un paio di matti -nel corso degli anni- scoperto che giro con questa benedetta adrenalina, mi hanno chiesto se gliene potevo cedere una fiala. A parte che di fiala ne ho una sola, averla è difficile, servono milioni di carte e io firmo tanti documenti per prenderla che indicano la mia responsabilità in caso di smarrimento, utilizzo inappropriato e via dicendo, non vedo perché dovrei trasformarmi in una spacciatrice di adrenalina.


Ad un certo punto mi chiedono gentilmente di alzarmi dalla barella e appoggiarmi al muro perché devono medicare un ragazzo: questo povero cristo era stato appena riempito di botte proprio lì, in ospedale. Da "nessuno", ci tengo a precisarlo. Era ammanettato, pieno di sangue. 
Io volevo morire, Fidanzato di solito sviene alla vista del sangue, gli amici proprio coraggiosi non sono (quanto meno non tutti). 
Dopo un po' ci dicono che dobbiamo aspettare qualche ora per ricevere le attenzioni di un medico, i parametri vitali erano tornati normali, il labbro stava a posto, il prurito pure, respiravo.
Le allergie sono così: o mi salvi subito la vita, io non muoio e nel giro di relativamente poco mi riprendo e siamo tutti felici e contento o muoio. Non sono morta, il loro lavoro l'hanno fatto.
"Toglietemi gli aghi" e me ne sono andata, perché io quindici ore (si, quindici ore) fuori ad aspettare che un medico mi dica quello che io so (perché mi disse un bravo allergologo che un allergico conosce quello che gli sta succedendo meglio di un medico) a vedere massacrare di botte la gente non ci sto. 
E piuttosto cambio ospedale.

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